La montagna


La montagna l'ho conosciuta appena ho aperto gli occhi. La montagna famosa a dodici anni, quando fui ingaggiato come falciatore a Moena, sui pascoli alti, per poche lire all'ora. Rimasi affascinato da quelle enormi cime che spuntavano dai prati come i fiori. Si falciava tutto il giorno, circondati da lame di roccia scintillanti al sole come immense coti. Certe forme dolomitiche sono nate dai duelli tra Hurungnir e Thor. L'arma del primo era una cote che scagliava verso il nemico. Dove si conficcava era una montagna nuova. Le montagne sono belle perché hanno il vuoto attorno. Un vuoto che ci spaventa, forse perché rispecchia quello che abbiamo dentro. Le montagne comunicano il senso dell'irraggiungibile, del perfetto, del maestoso, dell'intoccabile. Ho scalato molte montagne, anche all'estero, in Groenlandia, in America, ma sono rimasto innamorato delle mie, dove sono nato e cresciuto. Andando in giro ho scoperto che le montagne del mondo hanno tutte una base e una cima, e il dolore degli uomini è sempre lo stesso. Adesso il mio motto è: «Conosci l'orto di casa tua e conoscerai l'India intera». Chi non ha un orto contempli un geranio, sarà lo stesso. Oggi non frequento quasi più le montagne famose perché sono diventate di moda, quindi caotiche. Alla loro base sorgono i più grandi parcheggi d'Europa. Ormai, su quelle vette cade neve colorata firmata da prestigiosi stilisti. Ma devo dire che la montagna mi ha regalato ciò che gli uomini, le donne, i genitori, non sono riusciti a darmi. Dalla montagna mi sono sentito compreso, ascoltato, degnato di attenzione. Qualche volta anche spintonato, ma sempre dopo essere stato avvertito. Anche oggi che ho passato i cinquanta, e il mio animo è diventato corteccia e le delusioni non mi forano più, perché si spuntano sulla corteccia, quando le cose non vanno bene mi rifugio su qualche vetta.
È come fare visita a un'amica, per avere un consiglio, per riflettere prima di fare sciocchezze, per lasciare spegnere i fuochi che spingono al gesto impulsivo.
Vado su lungo una via facile, perché quando si è tristi non si possono affrontare difficoltà e pericoli. Mi siedo sulla cima, fumo una sigaretta e dico: «Eccomi qua! A quel paese tutte le menate, le preoccupazioni, i pensieri». Rimango qualche ora lassù, in silenzio.
Lo so, il mio è un limite, un problema di comunicazione, di rapporto con il prossimo. Ma che ci posso fare? Ognuno ha le sue malattie e, di conseguenza, il proprio medico personale. La natura, le montagne sono state la medicina, l'appiglio per non cadere. Ma, si può dire, di tutta la famiglia perché anche mio padre e mio nonno andavano a guarirsi sulle cime. Dalle montagne ho avuto protezione e affetto. La scalata estrema è venuta dopo, ma non c'entra nulla, o molto poco, con l'amore per la montagna, con ciò che mi ha dato e continua a darmi. Per me è la madre sulla quale giocano, si nascondono, cercano calore i suoi figli. Ogni tanto la mamma si stiracchia, respira, sbadiglia, qualche bambino rotola giù. Qualche altro soffoca sotto la sua mole come un pulcino sotto la chioccia. Ma non è colpa di nessuno. Mi escono battute sarcastiche quando leggo o sento definire la montagna assassina. La montagna non è assassina, se ne sta lì e basta. Siamo noi i killer di noi stessi, che non sappiamo vivere, che usiamo il profumo per l'uomo che non deve chiedere mai, che abbiamo dimenticato la carità, la riconoscenza, il rispetto, che distruggiamo la natura. La vita è un segno di matita, curvo e sottile, che finisce ad un certo punto. Per molti è lungo, per altri corto, per altri non parte nemmeno.
La gomma del tempo verrà poi a cancellare quel segno. Di noi non resterà nemmeno il ricordo. E giusto così. E allora perché sgomitare tanto? Ho speso i giorni liberi dal dovere in compagnia delle montagne e della natura e mi sono trovato bene. Molto di più che con la gente. Perché la montagna non è gelosa, né invidiosa, non cerca potere né vendetta. Né tradisce. Per andare in montagna ho ridotto al minimo il dovere. Non ho accumulato soldi, non ho snaturato la vita nascondendomi sotto mucchi di orpelli inutili. Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro. La montagna mi ha insegnato anche questo. Dopo due giorni di vagabondaggi senza cibo, una volta a casa, non è necessario che il tonno si tagli con un grissino per essere buono. La montagna mi ha fatto capire che è da sciocchi mettere la vita in banca sperando di ritrovarla con gli interessi. Mi ha aiutato a non essere troppo tonto, anche se un po' tonti si è tutti da giovani. Mi ha insegnato che dalla vetta non si va in nessun posto, si può solo scendere. Saggio consiglio per non farsi prendere dai traguardi dell'ambizione lungo il segno di matita. Oggi non ho né rimorsi né rimpianti. E andata così e basta. Forse sono un po' più saggio, o sto diventando vecchio. Ho usato la vita come una falce. L'ho battuta, arrotata, senza paura di colpire il sasso nascosto tra l'erba. Ho reciso fiori ed erbe. Adesso la falce è mezza consumata. Ma taglia ancora il fieno delle montagne. Se tornassi indietro rifarei tutto. Ma indietro non vorrei mai tornare.
Concludo queste righe con un pensiero di Fernando Pessoa che tengo davanti al tavolo dove leggo, scrivo, e, per qualche ora, finita la bottiglia, dormo: «Quando l'erba crescerà sulla mia tomba, sia quello il segnale per dimenticarmi del tutto. La natura mai si ricorda, e perciò è bella. E se avessero la necessità morbosa di "interpretare" l'erba verde sulla mia tomba, dicano che io continuo a rinverdire e a essere naturale».

Mauro Corona