Sezione 1  

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Inizia la spiegazione delle strofe d’amore

tra la sposa e lo Sposo

 

STROFA 1

            Dove ti sei nascosto, Amato?

Sola qui, gemente, mi hai lasciata!

Come il cervo fuggisti,

dopo avermi ferita;

gridando t’inseguii: eri sparito!

SPIEGAZIONE

1. In questa prima strofa l’anima innamorata del Verbo Figlio di Dio, suo Sposo, desiderando unirsi a lui con una visione chiara ed essenziale, espone le sue ansie d’amore, lamentandosi per la sua assenza. Si lamenta soprattutto perché, avendola ferita con il suo amore, a motivo del quale ella ha lasciato tutte le cose create e se stessa, deve poi patire l’assenza del suo Amato, che ancora non la libera dalla carne mortale onde permetterle di goderlo nella gloria eterna. Per questo dice: Dove ti sei nascosto?

2. È come se dicesse: Verbo, Sposo mio, mostrami dove sei nascosto. Con queste parole gli chiede di manifestarle la sua essenza divina, perché il luogo dove è nascosto il Figlio di Dio è, come dice san Giovanni, il seno del Padre (Gv 1,18), cioè l’essenza divina, inaccessibile a ogni occhio mortale e nascosta a ogni umana comprensione. Per questo Isaia, parlando con Dio, si è espresso in questi termini: Veramente tu sei un Dio nascosto (Is 45,15). Occorre dunque notare che, per quanto grandi siano le comunicazioni e le presenze di Dio nei confronti dell’anima e per quanto alte e sublimi siano le conoscenze che un’anima può avere di Dio in questa vita, tutto questo non è l’essenza di Dio, né ha a che vedere con lui. In verità, egli rimane ancora nascosto all’anima. Nonostante tutte le perfezioni che scopre di lui, l’anima deve considerarlo un Dio nascosto e mettersi alla sua ricerca, dicendo: Dove ti sei nascosto? Né l’alta comunicazione né la presenza sensibile di Dio sono, infatti, una prova certa della sua presenza, come non sono testimonianza della sua assenza nell’anima l’aridità e la mancanza di tali interventi. Per questo il profeta Giobbe afferma: Si venerit ad me, non videbo eum, et si abierit, non intelligam, cioè: Mi passa vicino e non lo vedo, se ne va e di lui non m’accorgo (Gb 9,11). Da ciò si può dedurre che se l’anima sperimentasse grandi comunicazioni, conoscenze di Dio o qualsiasi altra sensazione spirituale, non per questo deve presumere che tutto ciò sia un possedere Dio o essere più dentro di lui, oppure quello che sente o intende sia essenzialmente Dio, per quanto grande sia tutto questo. D’altra parte, se tutte queste comunicazioni sensibili e spirituali venissero a mancare, non per questo deve pensare che le manchi Dio. In realtà, nel primo caso non può avere la certezza di essere nella sua grazia e nel secondo di esserne fuori, come dice il Saggio: Nemo scit utrum amore an odio dignus sit: L’uomo non conosce se sia degno di amore o di odio davanti a Dio (Qo 9,1). L’intento principale dell’anima, quindi, in questo verso non è chiedere solo la devozione affettiva e sensibile, che non dà la certezza evidente che si possiede per grazia lo Sposo in questa vita. Domanda soprattutto la presenza e la chiara visione della sua essenza, di cui desidera avere la certezza e possedere la gioia nella gloria.

3. Questo appunto voleva dire la sposa nel Cantico dei Cantici allorché, desiderando unirsi intimamente alla divinità del Verbo, suo Sposo, si rivolse al Padre in questi termini: Indica mihi ubi pascas, ubi cubes in meridie, cioè: Dimmi dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio (Ct 1,7). Chiedergli di mostrare dove va a pascolare, significa chiedergli di mostrare l’essenza del Verbo divino, suo Figlio, perché il Padre non si gloria né si nutre se non nel Verbo, suo unico Figlio. Chiedergli, poi, di mostrare dove va a riposare al meriggio, significa chiedere la stessa cosa, perché il Padre non riposa e non si trova in nessun altro luogo se non nel Figlio, in cui riposa comunicandogli tutta la sua essenza, a mezzogiorno, cioè nell’eternità, dove sempre lo genera. Questo nutrimento, di cui il Padre si pasce, e questo letto fiorito del Verbo divino, dove si adagia nascosto ad ogni creatura mortale, è ciò che l’anima sposa chiede in questi termini: Dove ti sei nascosto?

4. Occorre qui notare – per trovare questo Sposo, nella misura che è possibile in questa vita – che il Verbo insieme con il Padre e lo Spirito Santo risiede essenzialmente nel centro intimo dell’anima, ove si è nascosto. Così, l’anima che deve trovarlo per unione d’amore deve staccare la sua volontà rifuggendo da tutte le cose create ed entrare in se stessa in un profondo raccoglimento, e instaurare con Dio rapporti pieni d’amore e di affetto, come se tutto il resto non esistesse. Per questo sant’Agostino, rivolgendosi a Dio nei Soliloqui, dice: Non ti trovavo, Signore, fuori di me, perché sbagliavo a cercarti fuori, mentre tu eri qui dentro di me. Dio, quindi, è nascosto nell’anima e il buon contemplativo deve cercarlo, dicendo: Dove ti sei nascosto, Amato? / Sola qui, gemente, mi hai lasciata!

5. Lo chiama Amato per commuoverlo di più e indurlo ad ascoltare la sua supplica; quando Dio è veramente amato esaudisce molto facilmente le richieste dell’amante. Lo si può chiamare veramente Amato quando l’anima è tutta sua e il cuore è completamente distaccato da tutto ciò che non è lui. Ma alcuni chiamano lo Sposo Amato quando non è realmente il loro amato, perché non gli hanno dato completamente il cuore; così la loro richiesta non ha tanto valore agli occhi dello Sposo.

6. Aggiunge, subito dopo: Sola qui, gemente, mi hai lasciata! Occorre notare che l’assenza dell’Amato causa continui gemiti nell’amante, perché non ama niente al di fuori di lui, in nulla trova riposo e sollievo. Da questo si può riconoscere chi ama davvero Dio: se non si contenta di qualcosa d’inferiore a Dio. San Paolo ci fa ben comprendere cos’è questo gemito quando dice: Nos intra nos expectantes adoptionem filiorum Dei, cioè: Gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli di Dio (Rm 8,23). È come se dicesse: dentro il nostro cuore, dove abbiamo il pegno dell’Amato, sentiamo ciò che ci tormenta, cioè l’assenza. Questo è il gemito che l’anima lascia sempre intendere a motivo dell’assenza del suo Amato, soprattutto quando, dopo aver gustato qualche dolce e piacevole sua comunicazione, egli la lascia nell’aridità e nella solitudine. Tale condotta la turba molto. Per questo aggiunge subito: Come il cervo fuggisti.

7. A questo punto occorre osservare che nel Cantico dei Cantici la sposa paragona lo Sposo al cervo e al capriolo, dicendo: Similis est dilectus meus capreae hinnuloque cervorum: Somiglia il mio Diletto a un capriolo o ad un cerbiatto (Ct 2,9). E questo per la rapidità nel nascondersi e nell’apparire; così si comporta di solito lo Sposo con le anime nelle sue visite, e quando fa sentire la sua assenza dopo averle visitate. In tal modo fa sentire loro la sua assenza con un dolore ancor più intenso, come fa capire l’anima con queste parole: dopo avermi ferita.

8. È come se dicesse: non solo mi bastavano la pena e il dolore che soffro abitualmente per la tua assenza, ma dopo avermi ancor più ferita con la tua freccia d’amore e accresciuto l’ardente passione di vederti, fuggi con la velocità d’un cervo e non ti lasci afferrare neppure per poco.

9. Per chiarire ulteriormente questo verso, è opportuno ricordare che, oltre alle molte visite che Dio fa all’anima in diversi modi, colpendola e accrescendo in lei l’amore, suole accordarle ardenti tocchi d’amore che la feriscono e la trapassano come frecce di fuoco, tanto da lasciarla tutta incendiata d’un fuoco d'amore. Queste vengono giustamente chiamate ferite d’amore, e di esse parla qui l’anima: infiammano talmente la volontà e il sentimento che l’anima arde di fiamma e fuoco d’amore, tanto che sembra consumarsi in quella fiamma. Tale fiamma la fa uscire fuori di sé e la rinnova tutta, dandole un nuovo modo di essere, come la fenice che brucia e rinasce dalle sue ceneri. A tale proposito Davide afferma: Inflammatum est cor meum et renes mei consummati sunt, et ego ad nihilum redactus sum, et nescivi: Il mio cuore era infiammato, i miei reni erano alterati, ero ridotto a un niente e non capivo (Sal 72, 21-22 Volg.). I desideri e le passioni, di cui parla qui il profeta adoperando il termine reni, si agitano e si trasformano tutti in divini nell’infiammarsi del cuore, e l’anima per amore si dissolve in nulla, non sapendo far altro che amare. In questo tempo pieno d’amore, la trasformazione delle cupidigie della volontà avviene in tale tormento e desiderio di vedere Dio, che la durezza dell’amore le sembra intollerabile. Questo supplizio non è provocato dal fatto d’essere stata ferita; al contrario, essa considera salutari queste ferite d’amore. Tale supplizio, invece, è provocato dal fatto che l’Amato, dopo averla ferita, l’ha lasciata nella sua pena. Egli non l’ha ferita fino al punto di toglierle la vita e, così, permetterle di vederlo nella splendida e chiara visione dell’amore perfetto. Per questo l’anima, per manifestare e spiegare il dolore di questa ferita d’amore, provocata dall’assenza dell’Amato dice: dopo avermi ferita.

10. Questo profondo dolore nasce nell’anima perché in quella ferita d’amore, che Dio le infligge, si risveglia la volontà che subito si lancia a possedere l’Amato, che essa ha sentito vicino a motivo del suo tocco d’amore. Con la stessa rapidità, l’anima avverte l’assenza dello Sposo e insieme il gemito, perché in questo momento l’Amato scompare, si nasconde, ed essa rimane nel vuoto, così il suo dolore e i suoi gemiti sono tanto più profondi quanto più vivo è il desiderio del suo possesso. Queste visite o ferite d’amore somigliano ad altre che Dio di solito concede all’anima per ricrearla  e soddisfarla, colmandola di serena dolcezza e di quiete. Dio, infatti, concede tali cose solo per ferire più che per sanare, più far soffrire più che per rallegrare, poiché esse servono a ravvivare le nostre conoscenze, ad accrescere il nostro desiderio e, di conseguenza, le nostre sofferenze. Vengono chiamate ferite d’amore e sono piacevolissime per l’anima, per cui essa vorrebbe morire mille volte per questi colpi lancinanti che la fanno uscire fuori di sé ed entrare in Dio. Questo è quanto dà a intendere nel verso seguente: gridando t’inseguii: eri sparito.

11. Per le ferite d’amore non c’è medicina se non da parte di colui che ha causato la ferita. Per questo l’anima ferita dice: gridando t’inseguii, cioè chiedendo il rimedio a colui che l’aveva ferita, tanto era bruciata dal fuoco di questa ferita. È bene ricordare che la parola «inseguire» (sp. salir tras, lett. «uscire dietro a») deve intendersi in due modi. Il primo si verifica quando si viene fuori da tutte le cose, aborrendole e disprezzandole; l’altro, quando si esce da se stessi, dimenticandosi completamente, cioè avendo un santo orrore di sé per amore di Dio. Quanto a Dio, egli eleva l’anima tanto da farla uscire da sé, da tutti i suoi modi naturali di agire, e gridare verso di lui. Qui l’anima intende questi due modi quando dice: t’inseguii, perché sono entrambi necessari e non se ne può fare a meno se si vuole correre dietro a Dio ed entrare in lui. La sposa sembra, dunque, dire: Sposo mio, con quel tocco e quella ferita d’amore non solo mi hai strappata da tutte le cose, ma mi hai fatta uscire anche da me stessa – in verità, sembra che Dio la separi persino dal suo corpo –, mi elevi fino a te, facendomi gridare per te, distaccata da tutto, per aggrapparmi a te.

12. Eri sparito! È come se dicesse: quando volli afferrare la tua presenza, non ti trovai e rimasi vuota e distaccata da tutto per amor tuo, e senza potermi afferrare a te, soffrendo perché ero come sospesa in aria, per amore, senza appoggio né in te né in me. Ciò che qui l’anima esprime con «inseguire-uscire» per andare a Dio, la sposa del Cantico dei Cantici lo dice con «alzarsi». Difatti, afferma: Surgam et circuibo civitatem, per vicos et plateas quaeram quem diligit anima mea; quaesivi illum et non inveni: Mi alzerò e farò il giro della città, per le strade e per le piazze; voglio cercare l’Amato del mio cuore. L’ho cercato ma non l’ho trovato (Ct 3,2). L’«alzarsi», parlando spiritualmente, significa salire dal basso verso l’alto e coincide con ciò che qui l’anima chiama uscire da se stessi, uscire cioè dal proprio imperfetto modo di amare, verso l’amore perfetto di Dio. Ma l’anima lascia intendere che soffre perché non l’ha trovato. Per questo l’anima innamorata di Dio vive sempre, in questa vita, nel tormento. Essa è già donata a Dio e attende ancora di essere ripagata con la stessa moneta, cioè con il dono del possesso e della chiara visione di Dio. Grida per averla, senza mai ottenerla in questa vita. Essa si è già persa d’amore per Dio, ma senza ricevere, in questa vita, la ricompensa della sua perdita, perché non ha il possesso dell’Amato per amore del quale si è persa. Chi prova questo tormento per Dio, mostra con chiarezza che si è donato a Dio e lo ama.

13. Questo pena e questo tormento provocati dall’assenza di Dio sono ordinariamente così intensi in coloro che si avvicinano alla perfezione, al tempo di queste ferite divine, che se il Signore non li sostenesse, morirebbero. Avendo, infatti, il gusto della volontà purificato e lo spirito limpido e ben disposto verso Dio e gustando già qualcosa della dolcezza dell’amore divino, che essi bramano più d’ogni altra cosa, soffrono indicibilmente. Quasi attraverso uno spiraglio intravedono un bene immenso, senza che lo possano ricevere. Ciò provoca sofferenza e tormento indescrivibili.

 

STROFA 2

            Pastori, voi che andrete

lassù, per gli stabbi al colle,

se mai colui vedrete

che più d’ogni altro amo,

ditegli che languo, peno e muoio.

SPIEGAZIONE

1. In questa strofa l’anima vuole servirsi di buoni intermediari presso il suo Amato, chiedendo loro di informarlo del suo dolore e della sua pena. Infatti è proprio di chi ama comunicare con l’Amato servendosi dei mezzi migliori a sua disposizione, quando non può farlo di persona. Qui l’anima vuole servirsi dei suoi desideri, affetti e gemiti come di messaggeri che possono manifestare molto bene i segreti del cuore al suo Amato. Per questo dice: Pastori, voi che andrete.

2. Chiama pastori i suoi affetti e desideri, in quanto essi pascono l’anima di beni spirituali: pastore, infatti, vuol dire colui che pasce. Per loro tramite Dio si comunica all’anima, mentre senza di essi non le si comunica affatto. E dice: voi che andrete, come a dire: voi che procedete da amore puro, perché tra gli affetti e i desideri arrivano a Dio solo quelli che scaturiscono da vero amore. Lassù, per gli stabbi al colle.

3. Chiama stabbi i cori degli angeli, che di coro in coro portano i nostri gemiti e le nostre preghiere a Dio. Lassù designa Dio in quanto somma altezza e perché in lui, come dalla cima, si esplorano tutte le cose; a lui vanno le nostre preghiere, offerte dagli angeli, come ho detto. Essi, infatti, offrono le nostre preghiere e i desideri, come notificò l’angelo al santo Tobia: Quando orabas cum lachrymis, et sepeliebas, ecc, ego obtuli orationem tuam Domino: Quando pregavi con lacrime e seppellivi i morti, io presentavo la tua preghiera davanti al Signore (Tb 12,12). Per pastori l’anima intende qui gli stessi angeli, perché non solo portano a Dio i nostri messaggi, ma portano anche quelli di Dio alle nostre anime, nutrendole, da buoni pastori, di dolci ispirazioni e comunicazioni divine; Dio trasmette queste ultime anche tramite loro ed essi ci difendono, da buoni pastori, dai lupi, cioè dai demoni. Se mai colui vedrete.

4. È come se dicesse: se per mia fortuna arrivaste alla sua presenza, in modo che egli vi veda e vi ascolti. Occorre osservare che, com’è vero che Dio tutto sa e conosce, vede e nota persino i pensieri dell’anima, è altrettanto vero che vede le nostre necessità e ascolta le nostre preghiere quando le esaudisce. Non tutte le necessità e le richieste arrivano al punto d’essere esaudite da Dio; deve arrivare il tempo opportuno ed esse devono raggiungere il numero adeguato perché si possa dire che Dio le vede e le ascolta, come si legge nel libro dell’Esodo: solo dopo quattrocento anni che i figli d’Israele avevano sofferto nella schiavitù d’Egitto Dio disse a Mosè: Vidi afflictionem populi mei in Aegipto et clamorem eius audivi, ecc., et descendi liberare eum: Ho visto la sofferenza del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido… Sono sceso per liberarlo (Es 3,7-8). Sebbene conoscesse da sempre questa sofferenza, disse di vederla solo quando decise di mettervi fine. Anche san Gabriele disse a Zaccaria: Ne timeas, Zacharia, quoniam esaudita est deprecatio tua: Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita (Lc 1,13). Ciò vuol dire che gli concedeva il figlio che da molti anni continuava a chiedergli, anche se da sempre aveva ascoltato la sua preghiera. Così ogni anima deve comprendere che Dio, pur non venendo subito incontro alle sue necessità e preghiere, non mancherà di soccorrerla al momento opportuno. Davide afferma: Adiutor in opportunitatibus, in tribulatione: Riparo per l’oppresso, in tempo d’angoscia rifugio sicuro (Sal 9,10). Quando l’anima afferma qui: se mai colui vedrete, intende dire: se per caso è giunto il momento in cui egli ritiene giusto esaudire le mie richieste. Che più d’ogni altro amo.

5. Cioè colui che amo più d’ogni altra cosa. Allora l’anima – parlando nel modo più chiaro possibile – lo ama più di tutte le cose: quando non vi è nulla che le impedisca di fare e soffrire qualsiasi cosa per lui. A lui, che essa ama più di tutto, invia come messaggeri i suoi desideri con il compito di manifestargli le sue necessità e le sue pene, in questi termini: ditegli che languo, peno e muoio.

6. L’anima presenta qui tre necessità, cioè languore, sofferenza e morte. L’anima che ama davvero Dio, quando egli è assente soffre abitualmente in tre modi, secondo le tre potenze dell’anima: l’intelletto, la volontà e la memoria. Quanto all’intelletto, l’anima langue perché non vede Dio, che è la salvezza dell’intelletto. Quanto alla volontà, soffre perché non possiede Dio, che è il riposo, il refrigerio e la delizia della volontà. Quanto alla memoria, si sente morire perché, ricordandosi che manca di tutti i beni dell’intelletto, che consistono nel vedere Dio, e della delizie della volontà, ossia del possesso di Dio, memore che è possibile perderlo per sempre, soffre una sensazione simile alla morte.

7. Queste tre forme di necessità vengono molto bene espresse da Geremia a Dio con queste parole: Recordare paupertatis meae, absynthii et fellis, che significano: Il ricordo della mia miseria e del mio vagare è come assenzio e veleno (Lam 3,19). La miseria si riferisce all’intelletto, perché ad esso appartengono le ricchezze della sapienza del Figlio di Dio, nel quale, come dice san Paolo, sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio (Col 2,3). L’assenzio, erba amarissima, si riferisce alla volontà, perché a questa facoltà appartiene la dolcezza del possesso di Dio. Se viene a mancarle, resta con l’amarezza, come dice l’angelo a san Giovanni nell’Apocalisse: Accipe librum et devora illum et facies amaricari ventrem tuum, che vuol dire: Prendi il libro e mangialo, ti riempirà di amarezza le viscere (Ap 10,9); queste rappresentano la volontà. Il veleno si riferisce alla memoria e significa la morte dell’anima, come lascia intendere Mosè parlando, nel Deuteronomio, dei ripudiati da Dio in questi termini: Fel draconum vinum eorum, et venenum aspidum insanabile: Tossico di serpenti è il loro vino, micidiale veleno di vipere (Dt 32,33), ciò che significa la privazione di Dio o la morte dell’anima. Queste tre necessità e sofferenze sono fondate sulle tre virtù teologali: la fede, la carità e la speranza, che corrispondono alle tre potenze suddette: intelletto, volontà e memoria.

8. Occorre osservare che l’anima, nel verso riportato, non fa che presentare i suoi bisogni e la sua sofferenza all’Amato, perché chi ama con discrezione non si preoccupa di chiedere ciò che gli manca oppure desidera, ma espone semplicemente i suoi bisogni affinché l’Amato faccia ciò che vuole. Così, infatti, si comportò la beata Vergine con il Figlio amato che alle nozze di Cana in Galilea, non chiedendogli direttamente il vino, ma dicendogli: Non hanno più vino (Gv 2,3). Allo stesso modo, le sorelle di Lazzaro non gli mandarono a dire di guarire il fratello, ma lo informarono che colui che egli amava era malato (Gv 11,3). Il motivo per cui è meglio presentare i propri bisogni all’Amato che chiedergli di esaudirli è triplice: anzitutto perché il Signore sa meglio di noi ciò che ci serve; in secondo luogo perché l’Amato si muove di più a compassione vedendo i bisogni di chi lo ama e la sua rassegnazione; infine perché l’anima è più al riparo dall’amor proprio e dall’egoismo nel presentare i suoi bisogni piuttosto che nel chiedere ciò che, a suo avviso, le manca. Ciò è quanto fa qui l’anima manifestando le sue tre necessità. Il che equivale a chiederne il rimedio; dice infatti: ditegli che languo, peno e muoio. È come se dicesse: poiché languo e lui solo è la mia salvezza, mi conceda salvezza; poiché soffro, e lui solo è il mio sollievo, mi conceda sollievo; poiché muoio, e lui solo è la mia vita, mi conceda vita.

 

STROFA 3

In cerca dei miei amori

mi spingerò tra i monti e le riviere,

non coglierò fiori

né temerò le fiere,

ma passerò i forti e le frontiere.

SPIEGAZIONE

1. All’anima non bastano i gemiti e le preghiere né l’aiuto d’intermediari per conversare con l’Amato, come ha fatto nelle precedenti strofe, ma insieme a questo ella stessa deve mettersi a cercarlo. Questo è il pensiero che esprime nella presente strofa: cercare l’Amato, esercitandosi nelle virtù e nelle mortificazioni della vita contemplativa e attiva. A tale scopo, non ammetterà alcun piacere o comodità, né basteranno a fermarla o ad ostacolarle il cammino tutte le forze e le insidie dei tre nemici dell’anima: il mondo, il demonio e la carne. Perciò dice: In cerca dei miei amori,

2. cioè del mio Amato, mi spingerò tra i monti e le riviere.

3. Essa chiama le virtù monti, anzitutto per la loro altezza e poi per le difficoltà e la fatica che si affrontano nel salirvi, quando si esercita nella vita contemplativa. Chiama, inoltre, riviere le mortificazioni, gli atti di umiltà e il disprezzo di sé, quando esercita queste cose nella vita attiva; infatti, per acquisire le virtù, sono necessarie l’una e l’altra vita. Il che, dunque, equivale a dire: per cercare il mio Amato metterò in opera le alte virtù e mi umilierò nelle mortificazioni e negli esercizi più modesti. Dice questo perché la ricerca di Dio consiste nel fare il bene in lui e mortificare il male in sé, come si dice dopo: non coglierò fiori.

4. Poiché per cercare Dio si richiede un cuore spoglio e forte, libero da tutti i mali e da tutti i beni che non siano esclusivamente Dio, nel verso presente e nei seguenti l’anima parla della libertà e della forza necessarie per cercarlo. Sostiene, quindi, che non si fermerà a cogliere i fiori che troverà lungo il cammino e che rappresentano tutte le voglie, le soddisfazioni e i piaceri che le si possono offrire in questa vita: tutto questo potrebbe ostacolare il cammino, se volesse coglierli e goderli. Gli ostacoli sono di tre tipi: terreni, sensibili e spirituali. Sia gli uni che gli altri occupano il cuore e impediscono lo spogliamento spirituale richiesto per camminare direttamente nella via di Cristo, se l’anima dovesse soffermarvisi od occuparsene. Per cercare Cristo, afferma che non si attarderà a cogliere cose del genere. È come se dicesse: non riporrò il mio cuore nelle ricchezze e nei beni offerti dal mondo, né accoglierò le consolazioni e i piaceri della mia carne, né indugerò nei gusti e nei conforti del mio spirito, per non essere trattenuta nella ricerca dei miei amori per i monti delle virtù e delle fatiche. Dicendo così, segue il consiglio che dà il profeta Davide a coloro che percorrono questo cammino: Divitiae si affluant, nolite cor apponete: Anche se abbondano le ricchezze, non attaccatevi il cuore (Sal 61,11). Questo vale sia per le soddisfazioni sensibili che per gli altri beni terreni e le consolazioni spirituali. Ne segue che non solo i beni terreni e i piaceri corporali impediscono e ostacolano il cammino verso Dio, ma anche le consolazioni e i conforti spirituali, se posseduti o cercati con attaccamento, impediscono di seguire la via della croce dello Sposo Cristo. Chi vuole progredire, quindi, non deve attardarsi a cogliere questi fiori. Non solo, ma deve avere anche il coraggio e la forza per dire: né temerò le fiere, ma passerò i forti e le frontiere.

5. In questi versi l’anima cita i suoi tre nemici – il mondo, il demonio e la carne – che le fanno guerra e rendono difficile il cammino spirituale. Per fiere intende il mondo, per forti il demonio e per frontiere la carne.

6. Chiama fiere il mondo perché, all’anima che inizia il cammino di Dio, il mondo si presenta nell’immaginazione come una fiera che minaccia e spaventa, soprattutto secondo tre maniere. La prima le fa pensare che perderà il favore del mondo, gli amici, la stima, il prestigio e persino il patrimonio. La seconda – una fiera non meno terribile – le fa vedere quanto dovrà soffrire non avendo più le gioie e i piaceri del mondo e non provando più le sue lusinghe. La terza, ancora più grande, le fa pensare che le si solleveranno contro le male lingue, deridendola e beffeggiandola con motteggi e burle, e sarà stimata pochissimo. Simili minacce di solito si presentano ad alcune anime tanto da rendere loro difficilissima non solo la perseveranza contro queste fiere, ma anche la possibilità d’intraprendere il cammino.

7. Ad alcune anime più generose, però, spesso si presentano altre fiere più interiori e spirituali: difficoltà e tentazioni, tribolazioni e prove di vario genere che esse dovranno affrontare. Dio invia tali fiere a coloro che vuole elevare a una perfezione maggiore, provandoli ed purificandoli come l’oro sul fuoco, secondo quanto afferma Davide: Multae tribulationes iustorum, cioè: Molte sono le sventure dei giusti, ma li libera da tutte il Signore (Sal 33,20). Tuttavia l’anima profondamente innamorata, che stima il suo Amato più di ogni altra cosa, fidandosi del suo amore e del suo favore non teme di dire: né temerò le fiere, ma passerò i forti e le frontiere.

8. Chiama forti il secondo nemico, i demoni, perché essi cercano con grande forza di sbarrare il passo di questo cammino e anche perché le loro tentazioni e astuzie sono più forti e dure da superare e più difficili da riconoscere rispetto a quelle del mondo e della carne. Inoltre i demoni si rafforzano con gli altri due nemici, il mondo e la carne, per muovere un’aspra guerra all’anima. Per questo Davide, parlando di essi, li chiama forti: Fortes quaesierunt animam meam: I forti insidiano la mia vita (Sal 53,5). A questa forza si riferisce anche il profeta Giobbe quando dice che non c’è sulla terra potere paragonabile a quello del demonio e tale che di nessuno debba aver paura (Gb 41,24 Volg.), cioè nessun potere umano può essere paragonato al suo. Solo il potere divino, quindi, può vincerlo e solo la luce divina può scoprire i suoi inganni. Ecco perché l’anima che deve vincere la sua forza non potrà riuscirvi senza la preghiera, né potrà scoprire i suoi inganni senza l’umiltà e la mortificazione. Per questo san Paolo, volendo mettere in guardia i fedeli, usa queste espressioni: Induite vos armaturam Dei, ut possitis stare adversus insidias diaboli, quoniam non est vobis colluctatio adversus carnem et sanguinem: Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo; la nostra battaglia, infatti, non è contro creature fatte di sangue e di carne (Ef 6,11-12). Per sangue intende il mondo e per armatura di Dio la preghiera e la croce di Cristo, ove risiedono l’umiltà e la mortificazione di cui ho parlato.

9. L’anima aggiunge che passerà oltre le frontiere, con le quali – ripeto – indica le ripugnanze e le ribellioni che la carne solleva naturalmente contro lo spirito. Come dice san Paolo: Caro enim concupiscit adversus spiritum: La carne ha desideri contrari allo Spirito(Gal 5,17), e si pone quasi sul confine ostacolando il cammino spirituale. L’anima deve andare oltre queste frontiere, superando le difficoltà e abbattendo con la forza e la determinazione dello spirito tutti gli appetiti sensuali e le affezioni naturali. Difatti, finché questi persisteranno nell’anima, lo spirito sarà talmente soggiogato da non poter andare avanti verso la vera vita e il diletto spirituale. Tutto questo ci fa ben comprendere san Paolo quando afferma: Si spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis: Se con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere della carne, vivrete (Rm 8,13). Questo dunque è l’atteggiamento che, secondo la presente strofa, l’anima ritiene opportuno adottare lungo il cammino di ricerca del suo Amato. Vale a dire: costanza e arditezza per non abbassarsi a cogliere i fiori, coraggio per non temere le fiere e forza per superare i forti e le frontiere, con l’unico scopo di andare sui monti e lungo le riviere delle virtù, come ho spiegato sopra.

 

STROFA 4

O boschi e fitte selve,

piantati dalla mano dell’Amato!

O prato verdeggiante

di bei fiori smaltato,

ditemi se qui egli è passato!

SPIEGAZIONE

1. Dopo che l’anima ha illustrato il modo per disporsi a intraprendere questo cammino, cioè non andare in cerca di piaceri e soddisfazioni, e la forza che occorre per vincere le tentazioni e le difficoltà – in questo consiste l’esperienza della conoscenza di sé, la prima cosa da fare se si vuole pervenire alla conoscenza di Dio –, ora, in questa strofa, comincia a camminare, mediante la considerazione e la conoscenza delle creature, verso la conoscenza del suo Amato, che le ha create. Dopo l’esperienza della conoscenza di sé, infatti, la considerazione sulle creature è la prima, in ordine di tempo, in questo cammino spirituale a favorire la conoscenza di Dio. L’anima può osservarne la grandezza e l’eccellenza nelle cose create, come dice l’Apostolo: Invisibilia enim ipsius a creatura mundi, per ea quae facta sunt intellecta, conspiciuntur (Rm 1,20). Sarebbe a dire: le cose invisibili di Dio vengono conosciute dall’anima attraverso le cose create, visibili e invisibili. L’anima, quindi, in questa strofa, si rivolge alle creature interrogandole sul suo Amato. Va rilevato che, come dice sant’Agostino, la domanda rivolta dall’anima alle creature è la considerazione attraverso di esse del loro Creatore. In questa strofa è contenuta, altresì, la riflessione sugli elementi e le creature inferiori e la riflessione sui cieli e le creature e cose materiali che Dio ha creato in essi, come anche la riflessione sugli spiriti celesti. Perciò dice: O boschi e fitte selve.

2. L’anima chiama boschi gli elementi fondamentali, cioè la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Difatti, come amenissimi boschi, sono popolati da numerosissime creature, che qui chiama fitte selve per il loro grande numero e la molteplice varietà con cui sono presenti in ogni elemento: sulla terra, innumerevoli varietà di animali e di piante; nell’acqua, innumerevoli specie di pesci; nell’aria, grandi varietà di uccelli; infine il fuoco, che concorre con gli altri elementi alla loro animazione e conservazione. Così, ogni specie degli animali vive nel proprio elemento e vi è collocata e come piantata nel suo bosco o regione dove nasce e si moltiplica. In realtà, così Dio dispose al momento della loro creazione, ordinando alla terra di produrre piante e animali, al mare e alle acque di produrre pesci, e fece dell’aria la dimora dei volatili (Gn 1,11ss). Per questo l’anima, considerando che egli ordinò così e che così fu fatto, canta nel verso successivo: piantati dalla mano dell’Amato!

3. In questo verso viene riportata la seguente considerazione: solo la mano dell’amato Dio poteva fare e creare tante varietà di creature e tali grandezze. Si deve rilevare che volutamente dice: dalla mano dell’Amato, perché, sebbene Dio faccia molte altre cose per mano altrui, per esempio servendosi degli angeli e degli uomini, tuttavia la creazione l’ha fatta e la fa per mano propria. L’anima quindi si sente fortemente spinta ad amare il suo amato Dio attraverso la considerazione delle creature, vedendo che sono cose create dalla sua stessa mano. E prosegue: O prato verdeggiante!

4. Questa è la considerazione sul cielo, che chiama prato verdeggiante, perché le cose create in esso conservano un rigoglio perenne, non finiscono né appassiscono con il tempo e in esse, come in un fresco prato, si rallegrano e gioiscono i giusti. In questa considerazione sono comprese anche le splendide stelle e altri pianeti celesti con tutta la loro varietà.

5. Anche la Chiesa applica il termine verdeggiante alle cose celesti, quando, pregando Dio per le anime dei fedeli defunti, rivolgendosi a loro dice: Constituat vos Dominus inter amoena virentia: Vi ponga Dio nei deliziosi luoghi verdeggianti. L’anima aggiunge che questo prato verdeggiante è di bei fiori smaltato.

6. Per fiori intende gli angeli e le anime sante, che conferiscono ordine e bellezza a quel luogo come un grazioso e fine smalto su di un vaso d’oro purissimo. Ditemi se qui egli è passato!

7. Questa domanda richiama la considerazione di cui si è parlato sopra, ed è come se dicesse: ditemi quali sublimi perfezioni ha creato in voi!

 

STROFA 5

Mille grazie spargendo

qui pei boschi s’affrettava,

e, mentre li guardava,

la sola sua presenza

adorni di bellezza li lasciava.

SPIEGAZIONE

1. In questa strofa le creature rispondono all’anima. La loro risposta, come dice anche sant’Agostino nel passo citato, è la testimonianza che danno in se stesse della grandezza e dell’eccellenza di Dio all’anima dopo la considerazione che ha provocato la domanda. In sostanza, quindi, questa strofa ricorda che Dio ha creato tutte le cose con grande facilità e in breve tempo, e in esse ha lasciato una traccia del suo essere, non solo traendole dal nulla all’esistenza, ma dotandole altresì di innumerevoli grazie e virtù, abbellendole con ordine ammirevole e con l’immancabile subordinazione delle une rispetto alle altre. Tutto questo fece attraverso la sua Sapienza, per mezzo della quale le creò, cioè per mezzo del Verbo, suo unigenito Figlio. Per questo dice: Mille grazie spargendo.

2. Con queste mille grazie che andava spargendo, allude alla moltitudine delle innumerevoli creature. Per questo motivo indica il numero più alto, mille, per rendere l’idea della loro enorme quantità. Le chiama grazie per le molte grazie di cui ha arricchito le creature; spargendo le grazie, cioè popolando il mondo, qui pei boschi s’affrettava.

3. Passare per i boschi significa creare gli elementi, qui chiamati boschi. Dice di averli attraversati spargendo mille grazie, cioè adornandoli di tutte le creature, che sono piene di grazia. Oltre a questo, spargeva in essi mille grazie, dando loro la forza di concorrere alla loro stessa generazione e conservazione. Dice che passava, perché le creature sono come un’impronta del passaggio di Dio; in esse s’intravedono la sua grandezza, la sua potenza, la sua saggezza e altre virtù divine. E dice che passava in fretta, perché le creature sono le opere minori di Dio, fatte quasi di passaggio. Quanto alle maggiori, quelle in cui egli si è meglio manifestato e nelle quali si è intrattenuto più a lungo, sono state l’incarnazione del Verbo e i misteri della fede cristiana, al cui confronto tutte le altre realtà sono state fatte come di passaggio, in fretta. E, mentre li guardava, la sola sua presenza adorni di bellezza li lasciava.

4. Come dice san Paolo, il Figlio di Dio è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3). Va ricordato, allora, che nella sola immagine di suo Figlio Dio contemplò tutte le cose. In questo modo donò loro l’essere naturale, arricchito di molte grazie e doni naturali, facendole complete e perfette, come dice la Genesi: Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona (Gn 1,31). Vederle molto buone equivaleva a farle molto buone nel Verbo, suo Figlio. E non solo, ripeto, guardandole comunicò loro l’essere e i doni naturali, ma con questa sola immagine del Figlio le lasciò rivestite di bellezza, partecipando loro l’essere soprannaturale. Questo avvenne quando egli si fece uomo, innalzando l’uomo alla bellezza di Dio, e di conseguenza innalzando in lui tutte le creature, perché si è unito alla natura di tutte le cose nell’uomo. Per questo lo stesso Figlio di Dio disse: Si ego exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum, cioè: Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me (Gv 12,32). Così, in questa glorificazione dell’incarnazione di suo Figlio e della sua risurrezione secondo la carne, il Padre non solo abbellì in parte le sue creature, ma potremmo dire che le rivestì completamente di bellezza e di dignità.

5. Oltre a quanto detto sopra, se ora ci poniamo sul piano affettivo della contemplazione, occorre aggiungere che, nel vivo della contemplazione e nella conoscenza delle creature, l’anima scopre una tale abbondanza di grazie, di virtù e di beltà, di cui Dio le ha arricchite, da sembrarle tutte rivestite di straordinaria bellezza naturale, derivata e comunicata dall’infinita bellezza soprannaturale dell’immagine di Dio. Il suo sguardo riveste di bellezza e di gioia il mondo e tutti i cieli. In questo medesimo senso Davide dice al Signore che, aprendo la tua mano, imples omne animal benedictione, cioè ricolmi di bene ogni vivente (Sal 144,16). L’anima, dunque, ferita dall’amore mentre segue la traccia della bellezza del suo Amato, che ha conosciuta attraverso le creature, e ardente del desiderio di contemplare l’invisibile bellezza, canta la strofa seguente.

 

STROFA 6

Ah! chi potrà guarirmi?

Alfin, concediti davvero:

e più non mi mandare

da oggi messaggeri

che non sanno dirmi ciò che bramo!

SPIEGAZIONE

1. Poiché le creature hanno offerto all’anima tracce del suo Amato, mostrando in sé l’impronta della sua bellezza e perfezione, è aumentato in lei l’amore e conseguentemente il dolore per la sua assenza; quanto più l’anima conosce Dio, tanto più aumenta il suo desiderio di vederlo. Quando si accorge che nulla può curare la sua afflizione se non la vista e la presenza dell’Amato, diffidando di ogni altro rimedio, gli chiede in questa strofa di concederle il dono e il possesso della sua presenza. Gli chiede altresì di non volerla più, d’ora in poi, intrattenere con altri indizi e comunicazioni della sua bellezza, perché queste cose non appagano la sua volontà e il suo desiderio. La sua volontà non si contenta di nulla se non della sua vista e della sua presenza. Voglia quindi concedersi a lei veramente in uno slancio amoroso pieno e perfetto. Per questo dice: Ah! chi potrà guarirmi?

2. Come per dire che, fra tutti i piaceri del mondo, le soddisfazioni dei sensi, le delizie e le dolcezze dello spirito, nulla può sanarla o soddisfarla. Chiede allora: Alfin, concediti davvero.

3. Occorre osservare che qualsiasi anima che ami veramente non può sentirsi appagata né può contentarsi finché non possiede veramente Dio. Tutte le altre cose, infatti, non solo non la soddisfano, ma anzi, come ho detto, accrescono la fame e il desiderio di vedere Dio così com’è. Per questo ogni visione dell’Amato, ricevuta attraverso la conoscenza o i sentimenti o qualsiasi altra comunicazione – che sono come messaggeri che portano all’anima notizie della sua essenza -, aumentando e risvegliando il suo appetito, al pari delle briciole per uno che ha molta fame, le rende doloroso il doversi contentare di così poco. Ecco perché dice: Alfin, concediti davvero.

4. Tutto ciò che di Dio si può conoscere in questa vita, per quanto elevato sia, non è vera conoscenza, perché è conoscenza parziale e molto remota; conoscerlo nella sua essenza è conoscenza vera, ed è questa che chiede l’anima, non contentandosi di altre conoscenze. Per questo aggiunge subito: e più non mi mandare da oggi messaggeri.

5. Sembra dire: d’ora in poi non volere che ti conosca così limitatamente per mezzo di messaggeri, di conoscenze e sentimenti che essi mi danno di te, così lontani e diversi da ciò che l’anima mia desidera di te. Sai bene, Sposo mio, quanto i messaggeri accrescano il dolore di chi soffre per un’assenza: anzitutto perché riaprono la piaga con le notizie che portano, poi perché sembrano ritardare la venuta. D’ora innanzi, dunque, non mi mandare messaggeri, cioè conoscenze remote, perché, se finora potevo contentarmene, non conoscendoti e non amandoti molto, ora la grandezza dell’amore che sento non può contentarsi di questi messaggi. Or dunque, concediti davvero! Quasi volesse dire molto più chiaramente: mio Signore e Sposo, quello che in parte dai di te alla mia anima, dammelo finalmente per intero; e quello che le mostri attraverso spiragli, mostramelo infine apertamente; e ciò che le comunichi attraverso intermediari, che è quasi darti per celia, comunicamelo veramente dando te stesso. Nelle tue visite, a volte dai l’impressione di voler dar la gioia del tuo possesso; ma quando l’anima vuole accertarsene, se ne trova priva, perché glielo nascondi, il che è come darlo per celia. Concediti, dunque, veramente, dandoti tutto all’anima, perché lei tutta ti possieda interamente, e più non mi mandare da oggi messaggeri, che non sanno dirmi ciò che bramo.

6. In altre parole, ti voglio tutto, mentre essi non sanno né possono dirmi tutto di te. Nessuna cosa terrena o celeste, infatti, può dare all’anima la conoscenza che desidera avere di te; per questo non sanno dirmi ciò che bramo. Sii tu, invece, il messaggero e il messaggio.

 

STROFA 7

E quanti intorno a te vagando,

di te infinite grazie raccontando,

ravvivan così le mie ferite,

e me spenta lascia non so cosa

ch’essi vanno appena balbettando.

SPIEGAZIONE

1. Nella strofa precedente l’anima ha mostrato di essere malata o ferita d’amore per lo Sposo a motivo di quanto di lui ha conosciuto attraverso le creature irrazionali. In questa strofa lascia intendere che è ferita d’amore a motivo di una conoscenza più alta che ha dell’Amato, per mezzo delle creature razionali, cioè gli angeli e gli uomini, che sono più nobili delle altre. Non dice soltanto questo, ma aggiunge anche che sta morendo d’amore a causa dell’immensità straordinaria che le si svela attraverso queste creature, senza riuscire a scoprirla del tutto; la chiama qui non so che, perché non sa dire cosa sia, ma è tale da farla morire d’amore.

2. Possiamo dedurre che in questo interscambio d’amore vi sono tre forme di sofferenza per l’Amato, a seconda delle tre forme di conoscenza che si possono avere di lui. La prima si chiama ferita. È la più superficiale e guarisce più in fretta, come una ferita, perché nasce dalla conoscenza che l’anima riceve dalle creature, appunto le opere inferiori di Dio. Di questa ferita, che si può anche chiamare malattia, parla la sposa del Cantico dei Cantici, quando dice: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis Dilectum meum ut nuntietis ei quia amore langueo, cioè: Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio Diletto, ditegli che sono malata d’amore! (Ct 5,8). Per figlie di Gerusalemme intende le creature.

3. La seconda si chiama piaga: penetra nell’anima più della ferita e per questo dura di più, perché è come una ferita trasformata ormai in piaga, così che l’anima si sente veramente piagata d’amore. Questa piaga si forma nell’anima attraverso la conoscenza delle opere dell’incarnazione del Verbo e i misteri della fede. Sono queste le opere maggiori di Dio, le quali rispetto alle creature racchiudono in sé un amore più grande. Come tali producono nell’anima un effetto più profondo d’amore. La loro qualità è tale che, se la prima forma è come una ferita, questa seconda è come una piaga aperta, che dura a lungo. Parlando di essa, lo Sposo del Cantico dei Cantici dice all’anima: Tu mi hai piagato il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai piagato il cuore, con un solo tuo sguardo, con un solo capello del tuo collo! (Ct 4,9). Lo sguardo qui significa la fede nell’incarnazione dello Sposo e il capello l’amore per la stessa incarnazione.

4. La terza forma di sofferenza per amore è uguale al morire ed è come avere una piaga incancrenita nell’anima. Divenuta tutta una piaga purulenta, l’anima vive morendo fino a quando l’amore, uccidendola, la farà vivere della vita d’amore, trasformandola in amore. Questo morire d’amore avviene nell’anima mediante un tocco di somma conoscenza della Divinità, cioè quel non so cosa – di questa strofa – che vanno appena balbettando. Questo tocco non è continuo né intenso, perché altrimenti l’anima si separerebbe dal corpo, ma è brevissimo. In questo modo l’anima è sempre sul punto di morire, e tanto più muore quanto più si accorge di non morire d’amore. Questo si chiama amore impaziente. Se ne parla nella Genesi, dove la Scrittura dice che era tale il desiderio che Rachele aveva di concepire, da dire al suo sposo Giacobbe: Da mihi liberos, alioquin moriar: Dammi dei figli, se no io muoio! (Gn 6,8.9 Volg.). E il profeta Giobbe diceva: Quis mihi det… ut qui coepit, ipse me conterai?, che significa: Oh, avvenisse… che colui che ha cominciato mi finisca, lasci libera la sua mano e mi faccia morire! (Gb 6,8.9 Volg.).

5. Secondo la strofa, queste due forme di sofferenza d’amore, cioè la piaga e il morire, sono prodotte dalle creature razionali: la piaga, per il fatto che le vanno raccontando infinite grazie dell’Amato nei misteri e nella sapienza di Dio insegnati dalla fede; quanto al morire, esso è dovuto a ciò che, come riferisce la strofa, vanno appena balbettando, cioè il sentimento e la nozione della Divinità che alcune volte l’anima scopre in quello che sente raccontare di Dio. Dice allora: E quanti intorno a te vagando.

6. Con coloro che vagano qui intende, come ho detto, le creature razionali, cioè gli angeli e gli uomini, perché solo costoro fra tutte le creature si dedicano a Dio prestandogli attenzione; questo, infatti, vuol dire il termine vagano, che in latino sarebbe vacant. È come dire: tutti quanti attendono a Dio, gli uni contemplandolo in cielo e godendone, come gli angeli; gli altri amandolo e desiderandolo sulla terra, come gli uomini. Siccome attraverso queste creature razionali l’anima conosce più chiaramente Dio, sia considerandone la superiorità che esse hanno su tutte le cose create, sia per ciò che esse ci insegnano di Dio – gli angeli interiormente con ispirazioni segrete, gli uomini esteriormente per mezzo delle verità della Scrittura –, dice: di te infinite grazie raccontando.

7. Cioè: mi fanno capire cose stupende della tua grazia e della tua misericordia nell’opera della tua incarnazione e nelle verità di fede che mi parlano e mi riferiscono sempre più cose su di te, perché quanto più esse vorranno dirmi, tanto maggiori grazie potranno svelarmi di te. Ravvivan così le mie ferite.

8. Perché quanto più gli angeli mi ispirano e gli uomini mi insegnano di te, tanto più mi fanno innamorare di te, e così tutti mi feriscono ancor più d’amore. E me spenta lascia non so cosa ch’essi vanno appena balbettando.

9. È come se dicesse: oltre al fatto che queste creature mi feriscono con le infinite grazie che di te mi fanno conoscere, rimane sempre un non so che, qualcosa che resta ancora da dire, qualcosa che si riconosce ancora inespresso. È una sublime impronta di Dio che si svela all’anima, che dev’essere ancora indagata. È un’altissima conoscenza di Dio che non si sa esprimere e che l’anima chiama un non so che. Se ciò che comprendo mi piaga e mi ferisce d’amore, quello che non riesco a comprendere, ma che avverto in modo così sublime, mi uccide. Questo accade talvolta alle anime già progredite, che Dio favorisce concedendo loro, attraverso quello che sentono o vedono o intendono – a volte solo con l’una o con l’altra di queste percezioni –, una chiara conoscenza in cui fa loro comprendere e sentire la sua sublimità e grandezza. In tale esperienza l’anima sente Dio in modo tanto sublime da riconoscere chiaramente che le resta tutto da comprendere. Questo capire e sentire che la Divinità è talmente immensa da non poter essere compresa interamente, è una forma di conoscenza molto elevata. Uno dei grandi favori transitori che Dio concede in questa vita a un’anima è quello di farle comprendere e sentire la sua presenza in modo tanto sublime che essa si rende chiaramente conto che non potrà mai comprendere o sentire Dio del tutto. Questo, in un certo qual modo, è simile alla visione di Dio in cielo, dove quelli che più lo conoscono, comprendono più chiaramente l’infinito che devono ancora comprendere, mentre a quelli che lo vedono meno, non appare tanto distintamente – come a quelli che più lo vedono – ciò che resta loro da vedere.

10. Questo, credo, non riuscirà a comprenderlo bene chi non l’ha sperimentato. L’anima invece che lo sperimenta, vedendo quanto dista dal comprendere ciò che sente così intensamente, lo chiama un non so che, perché come non si comprende, così neppure si sa esprimere, anche se è possibile sentirlo. Per questo l’anima dice che le creature lo vanno appena balbettando, proprio perché non riescono a farlo comprendere. Balbettare – atto tipico dei bambini – significa infatti non riuscire a esprimere in modo comprensibile ciò che si ha da dire.

11. Anche in relazione alle creature superiori vengono concesse all’anima illuminazioni simili a quelle accennate sopra, quantunque non sempre così elevate, allorquando Dio accorda la grazia di rivelarle la conoscenza e il senso spirituale di esse. Sembra che tali illuminazioni facciano comprendere le grandezze di Dio ma non del tutto: è come se volessero far comprendere qualcosa e non vi riuscissero. Tutto questo è  un non so cosa, che vanno appena balbettando. E allora l’anima prosegue nel suo lamento e nella strofa seguente parla con la vita della sua anima, dicendo:

 

STROFA 8

Ma come duri ancor,

o vita, se non vivi ove vivi,

se ti fanno morir

le frecce che subisci

da ciò che dell’Amato concepisci?

SPIEGAZIONE

1. L’anima, sentendosi morire d’amore, come ha appena detto, ma non potendo morire per godere con libertà dell’amore, si lamenta per il fatto di essere costretta nella vita corporale, a motivo della quale le viene dilazionata quella spirituale. In questa strofa, quindi, parla con la vita stessa della sua anima, rimproverandole il dolore che le causa. Il senso della strofa è dunque il seguente: vita dell’anima mia, come puoi perseverare in questa vita di carne, che per te è morte e privazione della vita spirituale in Dio, nel quale per essenza, amore e desiderio tu vivi veramente, più che nel corpo? Anche se questo non fosse motivo perché tu esca da questo corpo di morte (Rm 7,24) per vivere e godere la vita del tuo Dio, come puoi permanere in questo corpo? Bastano infatti a porre fine alla tua vita le ferite d’amore ricevute attraverso le grandezze a te comunicate da parte dell’Amato oppure quelle dell’amore veemente che di lui senti e percepisci, e che sono tocchi e ferite d’amore capaci di uccidere. Si commentano i versi: Ma come duri ancor, o vita, se non vivi ove vivi?

2. Per capire questi versi occorre sapere che l’anima vive più dove ama che nel corpo da essa animato, perché non ha la sua vita nel corpo, ma è lei che la comunica al corpo e vive per amore in ciò che ama. Però, oltre a questa vita d’amore, in virtù della quale l’anima vive in qualsiasi cosa che ama, possiede la sua vita originariamente e naturalmente in Dio, come tutte le altre cose create, secondo quanto afferma san Paolo: In ipso vivimus, movemur et sumus (At 17,28), che significa: in Dio abbiamo la nostra vita, il nostro movimento e il nostro essere. E san Giovanni aggiunge: Quod factum est, in ipso vita erat: Tutto ciò che è stato fatto, era vita in Dio (Gv 1,3.4). L’anima, vedendo che ha la sua vita naturale in Dio per l’essere che in lui possiede, come pure la vita spirituale per l’amore con cui lo ama, si lamenta di vivere ancora nella vita corporale, perché questa vita le impedisce di vivere veramente laddove essa ha la sua vera vita per natura e per amore. In tutto questo, grande è l’insistenza dell’anima, perché qui ci fa comprendere che soffre per due cose di segno opposto, quali sono la vita naturale nel corpo e la vita spirituale in Dio, due cose di per sé contrarie. Vivendole entrambe, l’anima deve necessariamente provare un grande tormento. Infatti la vita naturale è come morte, perché la priva di quella spirituale, ove il suo essere, la sua vita, le sue operazioni sono piene d’amore e di zelo. E per far meglio comprendere la durezza di questa vita fragile, subito aggiunge: se ti fanno morir le frecce che subisci.

3. È come se affermasse: oltre a quanto detto, come puoi permanere nel corpo se per toglierti la vita bastano da soli i tocchi d’amore – che qui sono chiamati frecce – con cui l’Amato colpisce il tuo cuore? Tali tocchi fecondano talmente l’anima e il cuore di amorosa intelligenza di Dio, da poter ben dire che essa concepisce di Dio, come dichiara nel verso successivo: da ciò che dell’Amato concepisci.

4. Cioè quello che riesci a comprendere riguardo alla sua bellezza, grandezza, sapienza e virtù.

 

STROFA 9

Perché, avendo questo cuor

piagato, poi non l’hai sanato?

E avendolo rubato,

perché me l’hai lasciato

e non cogli la preda che hai rubato?

SPIEGAZIONE

1. In questa strofa l’anima riprende a parlare con l’Amato, continuando a lamentarsi della sua sofferenza, perché l’amore impaziente, quale l’anima dimostra d’avere, non tollera indugio né concede tregua alla sua pena, manifestando in tutti i modi le sue ansie fino a trovarne il rimedio. Vedendosi ferita e sola, senza che alcuno l’aiuti e senz’altra medicina se non il suo Amato, proprio colui che l’ha ferita, gli chiede perché, avendole piagato il cuore con l’amore della sua conoscenza, non l’abbia poi sanato con la sua presenza visibile; e inoltre, avendole rubato il cuore con l’amore con cui l’ha fatto innamorare, sottraendolo al suo stesso potere, perché mai gliel’abbia lasciato così, cioè non più suo – chi ama, infatti, non possiede più il suo cuore perché lo ha dato all’Amato –, e non l’abbia posto davvero nel proprio cuore, appropriandosene con totale e definitiva trasformazione amorosa nella gloria. Perciò esclama: Perché, avendo questo cuor piagato, poi non l’hai sanato?

2. L’anima non si lamenta perché l’Amato l’ha piagata – dal momento che l’innamorato quanto più è ferito d’amore tanto più è contento –, ma perché, dopo averle ferito il cuore, non l’ha guarito finendo di ucciderla. Le ferite d’amore, in realtà, sono tanto dolci e piacevoli che, se non fanno morire, non la possono appagare; e le sono tanto soavi che vorrebbe la ferissero profondamente fino a ucciderla. Per questo dice: Perché, avendo questo cuor piagato, poi non l’hai sanato?, come a dire: perché, dopo averlo ferito fino a piagarlo, non lo guarisci finendo di ucciderlo d’amore? Poiché sei stato la causa della dolorosa piaga d’amore, sii anche la causa della salvezza nella morte per amore. In questo modo il cuore, ferito dal dolore della tua assenza, guarirà per il piacere e la gloria della tua dolce presenza. E aggiunge: E avendolo rubato, perché me l’hai lasciato?

3. Rubare non è altro che sottrarre al padrone ciò che è suo e impossessarsene come un ladro. Questo è il lamento che l’anima rivolge all’Amato: se egli le ha rubato il cuore per amore e lo ha sottratto al suo stesso potere e possesso, perché gliel’ha lasciato in quello stato, senza appropriarsene davvero prendendoselo, come fa il ladro con la refurtiva rubata, che di fatto porta via con sé?

4. Di un innamorato, infatti, si dice che ha il cuore rubato o rapito da colui che ama, perché l’ha come fuori di sé, riposto nella persona amata; quindi il suo cuore non è più suo, ma di colui che ama. Da ciò l’anima potrà riconoscere chiaramente se ama davvero Dio oppure no: se lo ama, il suo cuore non è più suo ma solo di Dio, perché quanto più riserva il cuore per sé, tanto meno lo possiede per Dio.

5. L’anima, dunque, vedrà che il suo cuore è stato davvero rapito, se essa è tutta ardente d’amore4 per l’Amato e se non gode al di fuori di lui, come manifesta in questa strofa. Questo perché il cuore non può stare in pace e tranquillo senza qualche possesso, e quando vi è affezionato, non possiede più se stesso né altra cosa. Ma se non possiede veramente ciò che ama, allora il suo tormento è grande, quanto la sua mancanza. Finché non lo possiede e si appaga, l’anima è come un vaso vuoto che attende di essere riempito, è come l’affamato che desidera il cibo, come l’infermo che geme per la salute o come colui che è sospeso a mezz’aria e non ha dove appoggiarsi. Così è il cuore profondamente innamorato. L’anima che sa tutto questo per esperienza, dice: perché me l’hai lasciato così, cioè vuoto, affamato, solo, ferito e dolente d’amore, sospeso in aria? E non cogli la preda che hai rubato?

6. Vale a dire: per colmarlo, saziarlo, accompagnarlo e sanarlo dandogli sostegno e riposo pieno in te. L’anima innamorata non può fare a meno di desiderare la paga e il salario del suo amore. È per questa ricompensa che serve l’Amato, altrimenti il suo non sarebbe vero amore, perché il salario e la paga dell’amore non è altro – né l’anima può volere altra cosa – che un amore sempre più grande, fino ad arrivare alla perfezione stessa dell’amore. L’amore, infatti, si paga solo con l’amore, come dà a intendere il profeta Giobbe quando dice: Sicut servus desiderat umbram, et sicut mercenarius praestolatur finem operis suis, sic et ego habui menses vacuos, et noctes laboriosas enumeravi mihi. Si dormiero dicam: quando consurgam? Et rursum expectabo vesperam, et replebor doloribus usque ad tenebras: Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi di illusione e notti di dolore mi sono state assegnate. Se mi corico dico: «Quando mi alzerò?». E poi di nuovo dovrò aspettare la sera, pieno d’affanni fino alla notte (Gb 7,2-4 Volg.). Allo stesso modo, l’anima, accesa d’amore per Dio, desidera il compimento e la perfezione dell’amore per trovarvi pieno refrigerio. Come lo schiavo fiaccato dalla calura desidera il refrigerio dell’ombra e come il mercenario aspetta il termine del suo lavoro, così l’anima aspetta il termine del suo. Notiamo che il profeta Giobbe non dice che il mercenario aspetta la fine del suo lavoro, ma il suo salario, per far comprendere ciò che sto dicendo, che cioè l’anima innamorata non aspetta la fine del suo lavoro, ma la sua ricompensa, lo scopo del suo operare. Difatti la sua opera è amare, e di questo lavoro, l’amore, attende il fine e il coronamento, cioè la perfezione e il compimento dell’amore per Dio. Finché non raggiunge questo scopo, si comporta come la descrive Giobbe nel passo riportato sopra, ritenendo vuoti i giorni e i mesi, e contando le notti dolorose e interminabili. Da quanto detto si comprende come l’anima innamorata di Dio non deve pretendere né sperare altra cosa da lui che la perfezione dell’amore.

 

STROFA 10

Estingui i miei affanni,

ché nessuno vale ad annientarli,

ti vedan i miei occhi,

perché ne sei la luce,

per te solo desidero serbarli!

SPIEGAZIONE

1. L’anima prosegue in questa strofa chiedendo all’Amato di voler finalmente porre termine alle sue ansie e alle sue pene. Non vi è nessuno, infatti, all’infuori di lui, in grado di farlo, e allora faccia in modo che gli occhi dell’anima possano vederlo, perché solo lui è la luce a cui essi guardano e non vuole fissarli su nient’altro che non sia lui. Gli dice dunque: Estingui i miei affanni!

2. Come si è detto, la concupiscenza d’amore possiede questa proprietà: tutto quello che non si accorda, a fatti e a parole, con ciò che la volontà ama, la stanca, l’annoia e la turba, lasciandola disgustata, perché non vede realizzarsi ciò che desidera. Qui chiama affanni tutto questo e le fatiche che affronta per vedere Dio, e nulla può annientarli se non il possesso dell’Amato. Per questo gli chiede di eliminarli con la sua presenza, dando il suo refrigerio, come fa l’acqua fresca a chi è spossato dal caldo. Usa per l’appunto il termine estinguere, per far capire che essa sta soffrendo a causa di questo fuoco d’amore. Ché nessuno vale ad annientarli.

3. Per meglio commuovere e convincere l’Amato a esaudire le sue richieste, l’anima invita lo stesso Amato a estinguere le sue pene, perché nessun altro è in grado di soddisfare quanto lei chiede. Notiamo qui che Dio è ben disposto a consolare l’anima e a soddisfare i suoi bisogni e le sue sofferenze, quando lei non ha né pretende altra soddisfazione o conforto al di fuori di lui. Così l’anima che non ha nulla che la trattenga all’infuori di Dio, non può rimanere a lungo senza la visita dell’Amato. Ti vedan i miei occhi.

4. Cioè fa’ che ti possa vedere faccia a faccia (1Cor 13,12), con gli occhi della mia anima, perché ne sei la luce.

5. Dio, oltre a essere luce soprannaturale degli occhi dell’anima, senza la quale essa è nelle tenebre, è affettuosamente chiamato dall’anima luce dei suoi occhi, come l’innamorato suole chiamare la persona amata «luce degli occhi miei» per dimostrare l’affetto che le porta. Nei due versi citati sopra è come se dicesse: poiché gli occhi della mia anima non hanno altra luce, né per natura né per amore, se non te, ti vedan i miei occhi, perché in ogni modo ne sei la luce. Davide sentiva la mancanza di questa luce quando, desolato, esclamava: Lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum: Si spegne la luce dei miei occhi! (Sal 37,11). Per te solo desidero serbarli!

6. Nel verso precedente l’anima ha lasciato intendere come i suoi occhi erano nelle tenebre dal momento che non vedevano l’Amato, perché solo lui ne è la luce. Con tale espressione l’anima vuole obbligare lo Sposo a donarle questa luce di gloria. Nel presente verso vuole obbligarlo ancora di più dicendogli che se ne servirà solo per lui. Se è giusto, infatti, che l’anima sia privata di questa luce quando getta lo sguardo della sua volontà su qualcosa al di fuori di Dio, poiché vi frappone degli ostacoli, è altrettanto giusto che il suo merito venga ricompensato quando chiude i suoi occhi a tutte le cose create per aprirli solo al suo Dio.

 

STROFA 11

O fonte cristallina,

se in questi tuoi riflessi inargentati

formassi all’improvviso

quegli occhi tuoi desiderati,

che porto nel mio intimo abbozzati!

SPIEGAZIONE

1. Poiché l’anima desidera così ardentemente l’unione con lo Sposo e non trova rimedio né mezzi in nessuna creatura, si rivolge alla fede e le parla, come a quella che può darle più efficacemente lumi sul suo Amato, assumendola come mezzo per raggiungere questo scopo. In realtà non esiste altro mezzo per arrivare alla vera unione con Dio, come lo Sposo ci fa comprendere tramite Osea: Ti farò mia sposa nella fede (Os 2,20 Volg.). E con il desiderio di cui arde, dice: O fede del mio sposo Cristo, le verità sul mio Amato che hai infuso nella mia anima, nell’oscurità e nelle tenebre, degnati di manifestarmele in tutta chiarezza! Quanto contieni in te, conoscenze confuse per me, degnati, facendole uscire da te, di svelarle e di mostrarmele, distinte e compiute, presentandomele in un istante come esse appariranno nella gloria! Dice allora il verso: O fonte cristallina!

2. Chiama cristallina la fede per due motivi: anzitutto perché è di Cristo suo Sposo, e poi perché ha le proprietà del cristallo: è pura nella verità, forte e luminosa, limpida da errori e da forme naturali. La chiama fonte perché da essa scaturiscono per l’anima le acque di tutti i beni spirituali. Per questo Cristo nostro Signore, parlando con la samaritana, chiamò «fonte» la fede, dicendo che per coloro che avrebbero creduto in lui si sarebbe aperta una sorgente d’acqua zampillante per la vita eterna (cfr. Gv 4,14). Quest’acqua significava lo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui (Gv 7,39). Se in questi tuoi riflessi inargentati.

3. Chiama riflessi inargentati le proposizioni e gli articoli che ci propone la fede. Per capire questo e gli altri versi, occorre sapere che la fede è paragonata all’argento nelle proposizioni che ci insegna; quanto alle verità stesse e alla loro sostanza, sono paragonate all’oro. Questa stessa sostanza che ora crediamo, vestita e coperta con l’argento della fede, la vedremo e la godremo nell’altra vita apertamente, nell’oro puro della fede. Davide, parlando di essa, dice: Mentre voi dormite fra gli ovili, splendono d’argento le ali della colomba, le sue piume di riflessi d’oro (Sal 67,14). Ciò vuol dire: se chiudiamo gli occhi dell’intelletto alle realtà del cielo e della terra, ciò che Davide chiama dormire in mezzo, resteremo nella fede. Questa è la colomba, le cui ali, cioè le verità che annuncia, splendono d’argento, perché in questa vita la fede ce le propone oscure e velate. Questo è il motivo per cui nel presente verso tali verità sono chiamate riflessi inargentati. Ma quando la fede avrà termine, cioè quando sfocerà nella chiara visione di Dio, rimarrà la sostanza della fede spoglia del velo di quest’argento e avrà riflessi d’oro. La fede, quindi, ci dà e ci comunica Dio stesso, ma coperto con l’argento della fede. Nondimeno ce lo dà realmente. È come se qualcuno offrisse un vaso d’oro, ma placcato d’argento: non perché il vaso è ricoperto d’argento si può dire che egli non doni un vaso d’oro. Per questo, quando la sposa nel Cantico dei Cantici desiderava il possesso di Dio, lo Sposo glielo promise, compatibilmente con la condizione terrena, in questi termini: Farò per te pendenti d’oro, con grani d’argento (Ct 1,11). Con queste parole le promise di donarsi a lei sotto il velo della fede. Ecco perché l’anima rivolgendosi alla fede dice: Oh, se in questi tuoi riflessi inargentati! (sono gli articoli della fede menzionati sopra) – con i quali ricopri l’oro dei raggi divini, cioè gli occhi desiderati, di cui parla subito dopo – formassi all’improvviso quegli occhi tuoi desiderati!

4. Per occhi, ripeto, s’intendono i raggi e le verità divine che ci vengono proposte negli articoli di fede in modo confuso e oscuro. L’anima sembra dunque dire: Oh, se queste verità, che mi insegni in un modo confuso, oscuro e nascosto negli articoli di fede, finissi per darmele chiaramente e completamente palesi in essi, come reclama l’ardore del mio desiderio! Qui chiama occhi queste verità, perché le fanno sentire la presenza dell’Amato così intensamente da sembrarle di essere continuamente l’oggetto dei suoi sguardi. Per questo dice: che porto nel mio intimo abbozzati.

5. L’anima dice che porta nel suo intimo abbozzate tali verità, per mezzo dell’intelletto e della volontà, perché è l’intelletto a possedere queste verità, in esso infuse dalla fede. Ma poiché non si possono conoscere perfettamente, l’anima dice che sono abbozzate. Come l’abbozzo non è pittura perfetta, così la cognizione di fede non è conoscenza perfetta. Per questo motivo, le verità infuse nell’anima dalla fede sono come abbozzate, mentre quando saranno viste con visione chiara, allora saranno nell’anima come una pittura perfetta e compiuta, come dice l’Apostolo: Cum autem venerit quod perfectum est, evacuabitur quod ex parte est, che significa: Quando verrà ciò che è perfetto, cioè la chiara visione, quello che è imperfetto scomparirà, cioè la cognizione di fede (1Cor 13,10), cioè la conoscenza della fede.

6. Ma nell’anima innamorata, oltre a questo abbozzo di fede, vi è un altro abbozzo, quello dell’amore, che opera attraverso la volontà. In quest’ultima, quando c’è unione d’amore, l’immagine dell’Amato viene riprodotta in maniera così viva e perfetta da poter dire in tutta verità che l’Amato vive nell’amante e l’amante nell’Amato. L’amore crea una tale somiglianza nella trasformazione degli amanti da poter dire che ciascuno di loro è l’altro e che entrambi sono uno. Questo perché nell’unione e nella trasformazione d’amore l’uno si dà in possesso all’altro, ciascuno si abbandona, si consegna e si scambia con l’altro; ciascuno di essi vive nell’altro, l’uno è nell’altro ed entrambi sono uno per trasformazione d’amore. Questo voleva dire san Paolo quando scriveva: Vivo autem iam non ego; vivit vero in me Christus: Vivo, però non più io, ma vive in me Cristo (Gal 2,20). Dicendo vivo io, ma non più io, vuol farci comprendere che, sebbene lui vivesse, la vita non era la sua, perché era trasformato in Cristo, e così la sua vita era più divina che umana; per questo dice che non è lui che vive, ma Cristo in lui.

7. In base a questa somiglianza e trasformazione, possiamo dunque dire che la sua vita e tutta la vita di Cristo erano una vita sola per unione d’amore. In cielo si realizzerà perfettamente quest’unione nella vita divina per tutti coloro che avranno meritato di vedersi in Dio. Trasformati in lui, vivranno la vita di Dio e non la propria vita, anche se sarà vita propria, perché la vita di Dio sarà la loro vita. Allora potranno dire veramente: viviamo, ma non più noi, perché Dio vive in noi. Questo stato è possibile anche in questa vita, come lo fu per san Paolo, tuttavia non è perfetto né assoluto, anche se l’anima perviene a quella trasformazione d’amore propria del matrimonio spirituale, lo stato più elevato a cui si possa giungere in questa vita. Tutto questo può essere chiamato abbozzo d’amore a confronto dell’immagine perfetta che si compie nella trasformazione della gloria. Ma quando in questa vita si raggiunge questo abbozzo di trasformazione, è una grande fortuna, perché di ciò si compiace moltissimo l’Amato, tanto da desiderare che la sposa lo metta come segnacolo nella sua anima, come le dice nel Cantico: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio (Ct 8,6). Qui il cuore significa l’anima, nella quale in questa vita Dio è presente come sigillo di abbozzo di fede, come ho ricordato sopra; e il braccio significa la volontà forte, in cui, come ho appena detto, si trova come sigillo d’amore.

 

STROFA 12

Distoglili, Amato,

ché a volo io vado!

 

lo Sposo

Colomba mia, ritorna,

ché il tuo cervo ferito

spunta di sull’altura

e al soffio di tuo vol gode frescura!

SPIEGAZIONE

1. Quando l’anima è animata dai grandi desideri e slanci d’amore espressi nelle strofe precedenti, l’Amato è solito visitare la sua sposa in modo elevato, delicatamente e affettuosamente, comunicandole la forza del suo amore. Abitualmente, infatti, questi slanci e ansie d’amore sono seguiti da grazie e visite straordinarie che Dio concede all’anima. Ora, poiché l’anima ha manifestato un vivo desiderio di vedere gli occhi divini, come ha appena detto nella strofa precedente, l’Amato le mostra qualche raggio della sua grandezza e divinità, come essa desiderava. Sono raggi talmente elevati e comunicati con tale intensità da farla uscire fuori di sé in rapimento ed estasi d’amore. Questo fenomeno, all’inizio, provoca nell’anima una grande sofferenza e un terribile spavento per la sua natura. Così, debole com’è, non potendo sopportare tale eccesso, esclama in questa strofa: Distoglili, Amato! Cioè allontana questi tuoi occhi divini, perché mi fanno volare fuori di me verso la somma contemplazione insopportabile da parte della natura. La sposa si esprime così perché la sua anima sembra staccarsi dalla carne, come essa desiderava. Ora lo prega di distogliere gli occhi, cioè di smettere di comunicare quei raggi divini nella carne, nella quale non li può sopportare né godere come vorrebbe; gli chiede, invece, di mostrarglieli quando con il suo volo andrà fuori della carne. Ma lo Sposo le impedisce subito quel desiderio di volo, dicendole: Colomba mia, ritorna perché la comunicazione che ora ricevi da me, sebbene non appartenga a quello stato di gloria al quale tu aspiri, tuttavia ti fa voltare verso di me. Sono io quello che tu, ferita d’amore, stai cercando; anch’io, ferito d’amore come il cervo, comincio a mostrarmi a te nella tua sublime contemplazione, perché è una gioia e un sollievo per me quest’amore che mi mostri nella tua contemplazione. L’anima dice, dunque, allo Sposo: Distoglili, Amato!

2. Come ho detto, conformemente ai grandi desideri che l’anima aveva di questi occhi divini, che significano la Divinità, ha ricevuto interiormente dall’Amato una comunicazione e una conoscenza di Dio talmente sublime da farle esclamare: Distoglili, Amato! La miseria della natura in questa vita è tale che, quando le viene concesso ciò che è essenzialmente vitale per l’anima e che essa tanto desidera, cioè la comunicazione e la conoscenza del suo Amato, non può accoglierlo senza che le costi quasi la vita. Così, di quegli occhi che con tanta sollecitudine, tanta ansietà e in tanti modi cercava, nel momento in cui sta per contemplarli, arriva a dire: Distoglili, Amato!

3. A volte, infatti, è talmente grande il tormento che si prova in simili visite e rapimenti, che non v’è alcun altro tormento che allo stesso modo sloghi le ossa e metta alle strette la natura. Se Dio non provvedesse, l’anima perderebbe la vita. E in verità così pare all’anima in questo stato, perché si sente come staccare dalla carne e abbandonare il corpo. Il motivo di tutto ciò sta nel fatto che simili grazie non possono essere sopportate a lungo nella carne, perché lo spirito viene elevato per unirsi con lo Spirito divino che si dà all’anima e quindi necessariamente deve in qualche modo abbandonare la carne. Di conseguenza la carne deve soffrire, quindi l’anima deve soffrire nel suo corpo, a causa della loro unione nello stesso individuo. Pertanto, il grande tormento che l’anima prova in occasione di queste visite e la grande paura che l’afferra vedendosi trattata in maniera soprannaturale le fanno dire: Distoglili, Amato!

4. Ma se l’anima chiede all’Amato che distolga lo sguardo da lei, non per questo vorrebbe che lo distogliesse davvero: la sua è un’espressione d’istintivo timore, come ho detto prima. Anzi, malgrado tutto ciò che potrebbe costarle, non vorrebbe perdere queste visite e questi favori dell’Amato. Sebbene la natura ne soffra, il suo spirito prende il volo in un raccoglimento soprannaturale ove gode dello Spirito dell’Amato, che è quanto essa desiderava e chiedeva. L’anima, però, non chiede di ricevere questi favori fintanto che abita nella carne, dove non è possibile goderne se non imperfettamente e con sofferenza, ma chiede di riceverli laddove il suo spirito, avendo spiccato il volo fuori del corpo, potrà goderne liberamente. Per questo dice: Distoglili, Amato!, cioè non me li comunicare nel corpo, ché a volo io vado!

5. Sembra dire: a volo fuggo dalla carne, affinché me li comunichi fuori di essa, essendo i tuoi occhi la causa che mi fa volare fuori del corpo. Per meglio comprendere cosa sia questo volo, si consideri che, come ho detto, in questa visita dello Spirito divino, lo spirito umano viene elevato con veemenza per comunicare con lo Spirito, abbandona il corpo e cessa di sentire e di agire in esso, perché agisce solo in Dio. San Paolo dice che durante il rapimento non sapeva se la sua anima stesse ricevendo da Dio nel corpo o fuori del corpo (2Cor 12,2). Con questo non si vuol dire che l’anima abbandoni il suo corpo e gli tolga la vita naturale, ma semplicemente che cessa di agire in lui. Per questo, tali rapimenti e voli privano il corpo dei suoi sensi, come pure gli impediscono di sperimentare grandi sofferenze. Questo stato non è come certe sofferenze o svenimenti naturali, nei quali il dolore fa riprendere i sensi. Provano queste sensazioni durante tali visite divine quelli che non sono ancora giunti allo stato di perfezione, ma si trovano nello stato dei proficienti. Coloro invece che sono già arrivati allo stato di perfezione, ricevono le comunicazioni divine nella pace e nella serenità dell’amore soave. Non hanno più queste estasi, il cui scopo era preparare l’anima all’unione totale con Dio.

6. A questo punto sarebbe opportuno trattare dei diversi rapimenti ed estasi e di altre elevazioni e sottili voli dello spirito che avvengono ordinariamente alle persone spirituali. Ma poiché mio intento è solo quello di spiegare brevemente queste strofe, come ho promesso nel Prologo, lascio questa trattazione a chi sappia farlo meglio di me, e anche perché la beata Teresa di Gesù, nostra madre, ha già scritto pagine stupende su queste esperienze dello spirito; spero in Dio che vengano pubblicate presto. Quello che l’anima qui chiama volo, è il rapimento estatico dello spirito in Dio. Ecco perché l’Amato le dice immediatamente: Colomba mia, ritorna!

7. L’anima si sarebbe separata molto volentieri dal corpo in quel volo spirituale, pensando ormai che la sua vita stesse finendo, e così avrebbe potuto godere per sempre del suo Sposo in una contemplazione faccia a faccia. Ma lo Sposo l’ha fermata dicendole: Colomba mia, ritorna! Come se dicesse: colomba, nel volo alto e leggero della tua contemplazione, nell’amore che ti consuma e nella semplicità che ti è propria – sono queste le tre proprietà della colomba –, ritorna da questo sublime volo con cui vorresti possedermi per davvero, perché non è ancora giunto il momento di conoscermi in questo modo sublime. Contentati della conoscenza inferiore che ora ti comunico in questo tuo rapimento, ché il tuo cervo ferito

8. Lo Sposo si paragona al cervo: qui, infatti, per cervo intende se stesso. Si sa che è tipico del cervo salire su luoghi alti e, quand’è ferito, in tutta fretta correre a cercare refrigerio in acque fresche. Se sente la compagna lamentarsi e si accorge che è ferita, le va subito vicino, l’accarezza e la conforta. Così fa ora lo Sposo: vedendo la sposa ferita dal suo amore, sentendone il gemito, viene ferito dal gemito d’amore di lei. Fra gli innamorati, infatti, la ferita di uno è la ferita d’entrambi e ciò che prova l’uno lo prova anche l’altro. Per questo è come se dicesse: ritorna a me, mia sposa, perché se tu sei ferita d’amore per me, anch’io, come il cervo, ferito d’amore dalla tua stessa piaga, vengo a te affacciandomi dalle alture. Ecco perché dice: spunta di sull’altura.

9. Cioè dall’altura della contemplazione che tu raggiungi in questo volo. La contemplazione, infatti, è un luogo elevato da cui Dio, in questa vita, comincia a comunicarsi e a mostrarsi all’anima, ma non completamente. Per questo non dice che si mostra totalmente, ma che spunta, cioè si affaccia. Per quanto sublimi siano le conoscenze da Dio offerte all’anima in questa vita, sono tutte anticipazioni molto imperfette. Segue la terza caratteristica del cervo, già menzionata, contenuta nel verso seguente: e al soffio di tuo vol gode frescura.

10. Per volo dell’anima s’intende la contemplazione che essa gode nell’estasi della quale ho parlato, e per soffio lo spirito d’amore che causa nell’anima il volo della contemplazione. Molto giustamente viene designato soffio l’amore causato da questo volo, perché anche lo Spirito Santo, che è amore, nella sacra Scrittura è paragonato al soffio, in quanto spira dal Padre e dal Figlio. E come in Dio l’amore è espresso dal soffio che procede dalla contemplazione e dalla sapienza del Padre e del Figlio, per via di spirazione, così qui lo Sposo chiama soffio quest’amore dell’anima, perché procede dalla contemplazione e dalla conoscenza che in questo momento ha di Dio. C’è da notare che in questo verso lo Sposo non dice di essere attirato dal volo della colomba, ma dal soffio di tuo vol. Dio, infatti, non si comunica propriamente all’anima attraverso il volo dell’anima, che, come si è visto, significa la conoscenza che essa ha di Dio, ma attraverso l’amore della conoscenza. Come l’amore è unione del Padre e del Figlio, così è unione dell’anima con Dio. Per cui, se un’anima avesse una conoscenza di Dio assai sublime, una contemplazione altissima, e conoscesse tutti i misteri, ma non avesse l’amore, come dice san Paolo (1Cor 13,2), tutto ciò non le servirebbe a nulla per unirsi a Dio. Lo stesso san Paolo dice ancora: Charitatem habete, quod est vinculum perfectionis, cioè: Abbiate la carità, che è il vincolo della perfezione (Col 3,14). La carità e l’amore dell’anima, quindi, fanno correre lo Sposo a dissetarsi alla fonte d’amore della sua sposa, come le acque fresche attirano il cervo assetato e ferito in cerca di refrigerio. Per questo continua: gode frescura.

11. Come l’aria offre freschezza e refrigerio a colui che è sopraffatto dal calore, così quest’aria d’amore offre refrigerio e ristoro a chi arde del fuoco d’amore. Questo fuoco, infatti, ha una tale proprietà, che l’aria che gli procura fresco e refrigerio è un fuoco d’amore più grande. In realtà, l’amore dell’innamorato è fiamma che tende ad ardere sempre più, come la fiamma del fuoco naturale. Così, per soddisfare il desiderio di ardere sempre più al fuoco d’amore della sua sposa, rappresentato dal soffio del suo volo, dice di godere del fresco del suo passaggio. È come se dicesse: il mio amore aumenta all’ardore del tuo volo, perché un amore accende un altro amore. Da qui si può arguire che Dio pone nell’anima la sua grazia e il suo amore secondo i desideri e l’amore di quest’anima. Quindi, chi è veramente innamorato deve fare in modo che non gli manchi l’amore, perché tramite esso, ripeto, solleciterà di più il Signore, se ci si può esprimere così, a dimostrargli più amore e a riporre sempre più le sue compiacenze nella sua anima. Per conseguire questa carità è necessario mettere in pratica le raccomandazioni dell’Apostolo: La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non fa del male, non s’insuperbisce, non cerca il suo interesse, non si adira, non pensa male, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità; tutto crede, ossia ciò che si deve credere, tutto spera e tutto sopporta, ossia tutto ciò che si addice alla carità (1Cor 13,4-7).

 

STROFE 13 e 14

L’Amato le montagne,

le boschive valli solitarie,

le isole inesplorate,

i fiumi gorgoglianti,

il sibilo dei venti innamorati,

 

la quiete della notte

vicina allo spuntar dell’aurora,

musica silenziosa,

solitudin sonora,

cena che ristora e innamora.

ANNOTAZIONE

1. Prima di entrare nella spiegazione di queste strofe, occorre premettere, per una loro migliore comprensione, e anche di quelle che seguiranno, che per volo spirituale, di cui ho appena parlato, si indica un alto stato di unione d’amore in cui Dio suole stabilire l’anima dopo molti sforzi spirituali; viene chiamato, altresì, stato di fidanzamento spirituale con il Verbo, Figlio di Dio. La prima volta che Dio accorda all’anima questa grazia, le comunica grandi lumi sul suo essere; l’adorna di magnificenza e di maestà; l’arricchisce di doni e di virtù; le offre come vestito la conoscenza di sé e del suo onore, come avviene per una futura sposa nel giorno del suo fidanzamento. In quel giorno felice cessano per l’anima le sue gravi angosce e i pianti d’amore che la tormentavano prima. Essa viene altresì arricchita di tutti quei beni di cui si parla qui. Inizia per lei uno stato di pace, di delizie e d’amore pieno di dolcezza, come fa capire in queste strofe in cui non fa che raccontare e cantare le meraviglie del suo Amato, da lei conosciute e godute in lui dopo l’unione del fidanzamento. Ecco perché nelle strofe che seguono non parla più, come prima, di sofferenze e di ansie, ma solo di scambio e di effusioni d’amore che nutre per l’Amato, traboccanti di pace e di soavità. Una volta elevata a questo stato, finiscono tutte le sue pene. Ricordiamo che in queste due strofe sono descritti i favori più alti che Dio ordinariamente accorda in questo tempo a un’anima. Ma non si deve pensare che a tutte le anime elevate a questo stato vengano concessi tutti i favori di cui si parla in queste due strofe, né che allo stesso modo o nella stessa misura esse partecipino della conoscenza e dei sentimenti d’amore comunicati in tali favori. Ad alcune anime viene dato di più, al altre meno, ad alcune in un modo e ad altre diversamente, anche se si trovano nella stessa situazione di fidanzamento spirituale. Qui, però, viene indicato tutto ciò che di più importante racchiude questo stato, in modo che tutto venga incluso in esso. Segue la spiegazione.

 

SPIEGAZIONE DELLE DUE STROFE

2. Poiché questa piccola colomba dell’anima andava volando al soffio dell’amore sulle acque del diluvio dei suoi affanni e delle sue ansie d’amore manifestate fin qui, senza trovare dove posare il piede, ecco che all’ultimo volo, di cui si è parlato, il pietoso padre Noè stese la mano della sua misericordia, la raccolse e l’introdusse nell’arca della sua carità e del suo amore (Gn 8,8-9). Questo è avvenuto nel momento in cui, nella strofa precedente, le ha detto: Colomba mia, ritorna!

3. Come nell’arca di Noè, stando a quanto narra la sacra Scrittura, c’erano molti scomparti, data la grande varietà di animali, e tutte le specie di cibo che si potevano mangiare (Gn 6,14-21), così l’anima, nel suo volo verso l’arca, cioè il petto di Dio, vede le molte dimore, indicate dal Signore per bocca di san Giovanni, che sono nella casa del Padre (Gv 14,2). Non solo, ma essa vede e conosce lì tutti i diversi cibi, cioè tutte le grandezze che può gustare e che sono elencate nelle due strofe riferite sopra secondo un linguaggio comune. Sostanzialmente sono le seguenti.

4. In quest’unione divina l’anima vede e gusta un’abbondanza di ricchezze inestimabili; vi trova tutto il riposo e il sollievo che desidera; comprende segreti e straordinarie conoscenze di Dio, e questo è per lei uno dei cibi che assapora più di altri. Sente in Dio un tremendo potere e una terribile forza, superiori a qualsiasi altro potere o forza, e vi gusta una meravigliosa dolcezza e delizia spirituale. Qui ritrova il vero riposo e la luce divina. Gode profondamente della sapienza di Dio che risplende nell’armonia delle creature e nelle opere del Creatore. Si sente colma di beni, lontana e libera dal male e soprattutto comprende e gode l’inestimabile ristoro d’amore, che la conferma nell’amore. Questo sostanzialmente è il contenuto delle due strofe riportate sopra.

5. La sposa dice che il suo Amato è tutte queste cose in se stesso e per lei. Difatti, ciò che Dio suole comunicare in simili rapimenti fa conoscere all’anima la verità di quel detto di san Francesco: «Mio Dio e mio tutto!». Ora, poiché Dio è tutto per l’anima e il bene di tutte le cose, spiegherò come egli si comunichi in questi trasporti straordinari, applicando per similitudine la bontà delle creature menzionate nelle suddette strofe, delle quali illustrerò verso dopo verso. Resta inteso che le perfezioni di cui parlerò sono presenti in Dio in forma infinitamente eminente o, per meglio dire, ognuna di queste grandezze di cui si parla è Dio e tutte insieme sono Dio. Poiché l’anima in questo stato si unisce a Dio, sente che tutte le cose non sono che un solo essere con lui, come percepì san Giovanni quando disse: Quod factum est in ipso et vita erat, ossia: Ciò che fu fatto, in lui era vita (Gv 1,3-4). Questa sensazione dell’anima non significa, però, che essa veda le cose nella luce della gloria ovvero le creature in Dio, ma che in quel possesso sente che Dio è per lei tutte le cose. Allo stesso modo, poiché l’anima sente di Dio, in modo sublime, ciò che sto dicendo, non si deve concludere che lo veda essenzialmente e chiaramente. Si tratta solo d’una intensa e sovrabbondante conoscenza di Dio, penombra di ciò che egli è in sé. L’anima sente allora la bontà racchiusa nelle creature tutte, come spiegherò nei versi che seguono: L’Amato le montagne.

6. Le montagne sono alte, immense, spaziose, belle, graziose, cosparse di fiori e profumate. Queste montagne per me sono il mio Amato. Le boschive valli solitarie.

7. Le valli solitarie sono quiete, amene, fresche, ombrose, ricche di acque dissetanti. La varietà dei boschi e il dolce canto degli uccelli provocano grande distensione e godimento ai sensi; la solitudine e il silenzio che vi regnano offrono refrigerio e riposo. Queste valli sono per me il mio Amato. Le isole inesplorate.

8. Le isole inesplorate, e perciò misteriose, sono circondate dal mare e sperdute negli oceani lontani, del tutto fuori mano e distanti dalle comunicazioni degli uomini. In esse nascono e crescono cose molto diverse da quelle delle nostre regioni, con forme strane e proprietà mai viste dagli uomini: suscitano grande sorpresa e ammirazione in chi le vede. A motivo, quindi, delle profonde, meravigliose, nuove e sorprendenti conoscenze, diverse da quelle comuni, che l’anima ritrova in Dio, lo paragona alle isole inesplorate. Inesplorata o misteriosa si dice, infatti, di una persona per due motivi: o perché è lontana, non «alla mano» delle altre persone, o perché è al di sopra di esse per l’eccellenza e la perfezione dei suoi atti e delle sue opere. Per questi due motivi qui l’anima dice che Dio è inesplorato: non solo perché è tutta la bellezza rara delle isole mai viste, ma anche perché le sue vie, i suoi consigli e le sue opere sono eccezionalmente straordinari, insoliti e ammirevoli per gli uomini. Non stupisce che Dio sia inesplorato per gli uomini, che non l’hanno mai visto, perché lo è anche per gli angeli e per le anime che lo contemplano. Difatti gli uni e le altre non possono e non potranno mai vederlo nella sua totalità. Fino all’ultimo giorno del giudizio scopriranno in lui, nella profondità dei suoi disegni e nelle opere della sua misericordia e giustizia, tante novità, che riusciranno sempre nuove e meravigliose per loro. Ecco perché non solo gli uomini ma anche gli angeli possono chiamarlo isola inesplorata. Solo per se stesso non è inesplorato e nemmeno nuovo. I fiumi gorgoglianti.

9. I fiumi hanno tre caratteristiche: anzitutto, inondando e sommergono tutto ciò che incontrano; in secondo luogo, riempiono tutte le cavità e le zone basse che trovano; infine, fanno un tale fragore da dominare e coprire qualsiasi altro rumore. Ora, poiché l’anima in questa conoscenza di Dio, di cui sto parlando, percepisce in lui, con molta soavità, queste tre caratteristiche, dice che il suo Amato è i fiumi gorgoglianti. Quanto alla prima proprietà, di cui l’anima gode, ricordo che essa si sente investire dal torrente dello spirito di Dio, che s’impadronisce di lei con tanta forza da sembrarle di essere sommersa da tutti i fiumi del mondo. Sente allora che tutte le azioni e le passioni in cui prima si trovava sono come annegate. Ciò nonostante, la veemenza del torrente non è causa di sofferenza, perché questi sono fiumi di pace, come Dio stesso dà a intendere nelle parole di Isaia a proposito di questa inondazione nell’anima: Ecce ego declinabo super eam quasi fluvium pacis, et quasi torrentem inundantem gloriam: Ecco io farò scorrere verso di lei come un fiume di pace, come un torrente che ridonda di gloria (Is 66,12). Questa inondazione di Dio nell’anima, come fiumi gorgoglianti, la colma tutta di pace e di gloria. La seconda proprietà, di cui l’anima gode, è che l’acqua divina in questo momento riempie i bassifondi della sua umiltà e colma i vuoti dei suoi desideri, come dice san Luca: Exaltavit humiles, esurientes implevit bonis: Ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati(Lc 1,52-53). La terza proprietà, che l’anima sente quando è sommersa da questi fiumi gorgoglianti del suo Amato, consiste in un rumore o voce spirituale che è superiore a qualsiasi altro suono o voce. La voce dell’Amato copre ogni altra voce e domina ogni altro suono del mondo. Per spiegare come avvenga questo, bisogna soffermarsi un po’.

10. Questa voce e questo suono rimbombante dei fiumi, di cui parla qui l’anima, sono una pienezza così abbondante di beni, una forza tanto vigorosa che s’impadroniscono di lei, da sembrarle non solo fragore di fiumi, ma piuttosto rombo di tuoni. Questa voce, però, è una voce spirituale, quindi non comporta rumori materiali né causa sofferenza o molestia. Indica, invece, la maestà, la forza, la potenza, la delizia e la gloria. È come una voce e un immenso suono interiore che riveste l’anima di potenza e di forza. Tale è la voce spirituale, tale è il suono che echeggiò nello spirito degli apostoli quando lo Spirito Santo discese su di loro come un torrente impetuoso (cfr. At 2,2), come si narra nel libro degli Atti. Per far comprendere la voce spirituale che faceva loro sentire interiormente, egli produsse all’esterno quel rumore di forte vento, tale da essere udito da tutti quelli che si trovavano in Gerusalemme. Grazie ad esso, come dicevo, si capiva quello che gli apostoli ricevevano interiormente, cioè una pienezza di potenza e di forza. Anche quando il Signore Gesù pregava il Padre, come riferisce san Giovanni, nell’angoscia e nella sofferenza cagionategli dai suoi nemici, udì interiormente una voce dal cielo che lo rafforzava nella sua umanità. Il rumore percepito esteriormente dai giudei era così forte e veemente che alcuni dicevano che era stato un tuono. Altri dicevano: «Gli ha parlato un angelo» (Gv 12,29) dal cielo. In realtà quella voce udita esternamente significava la forza e il potere conferiti interiormente all’umanità di Cristo. Non per questo si deve concludere che l’anima non percepisca nell’intimo il suono della voce spirituale. Anzi si deve notare che la voce spirituale è l’effetto prodotto nell’anima, come la voce materiale percepita dall’udito indica ciò che significa allo spirito. Ciò è quanto intendeva dire Davide con le parole: Ecce dabit voci suae vocem virtutis, che significa: Ecco, tuona con voce potente(Sal 67, 34). Questa potenza è la voce interiore. Davide dice: Tuona con voce potente, cioè: alla voce che tuona all’esterno Dio darà voce di potenza che si senta interiormente. Dio, quindi, è potenza infinita e, quando si comunica all’anima nel modo che ho riferito, produce in essa l’effetto di una voce la cui potenza è immensa.

11. San Giovanni nell’Apocalisse udì questa voce. Dice che la voce venuta dal cielo erat tamquam vocem aquarum multarum et tamquam vocem tonitrui magni: La voce che udì era come la voce di molte acque e come voce di un forte tuono (Ap 14,2). E per evitare l’impressione che una voce così forte fosse penosa perché aspra, aggiunge subito che quella voce era talmente soave che erat sicut citharoedorum citharizantium in citharis suis: la voce che udì era come quella di suonatori d’arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe (Ap 14,2). Ezechiele, dal canto suo, dice che questo suono come di molte acque era quasi sonum sublimis Dei, come il tuono dell’Onnipotente(Ez 1,24). Questo vuol dire che quella voce infinita gli si comunicava in modo sublime e con infinita dolcezza. Questa voce è infinita, perché, come sto dicendo, è Dio stesso che si comunica facendosi voce nell’anima. Ma adattando la sua potenza a ciascun’anima, si fa sentire con delizie inesprimibili e una sovrana grandezza. Per questo la sposa del Cantico dice: Sonet vox tua in auribus meis, vox enim tua dulcis: Fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave (Ct 2,14). Si commenta il verso: il sibilo dei venti innamorati.

12. In questo verso l’anima richiama l’attenzione su due cose: il sibilo e i venti. Per venti innamorati qui s’intendono le virtù e le grazie dell’Amato, le quali, in seguito all’unione con lo Sposo, investono l’anima comunicandole un amore profondo nelle fibre recondite della sua sostanza. Il sibilo di questi venti rappresenta l’altissima e soavissima conoscenza di Dio e delle sue virtù, che ridonda nell’intelletto, in seguito al tocco che queste virtù divine suscitano nella sostanza dell’anima. Questo è il diletto più elevato fra tutti quelli che l’anima possa gustare in questo stato.

13. Per meglio comprendere quanto detto, si ricordi che come nel vento si sentono due cose, cioè il tocco e il sibilo o suono, così anche in questa comunicazione dello Sposo si avvertono due cose, cioè una sensazione di piacere e la conoscenza delle delizie spirituali. Come il tocco del vento è percepito dal tatto e il sibilo dall’udito, così anche il tocco delle virtù dell’Amato si sente e si gode nel tatto dell’anima, cioè nella sua stessa sostanza; quanto alla conoscenza delle virtù di Dio, essa è percepita dall’udito dell’anima, cioè dall’intelletto. Si dice, inoltre, che spirano i venti innamorati quando accarezzano soavemente, soddisfacendo il desiderio di tale refrigerio, perché il tatto prova allora piacere e sollievo. Assieme al tatto anche l’udito riceve un senso d’intensa delizia al suono o sibilo del vento, molto più che il tatto dal tocco del vento. Difatti il senso dell’udito è più spirituale, o meglio, si avvicina di più a ciò che è spirituale, quindi il piacere che procura è più spirituale di quello causato dal tatto.

14. L’anima – poiché questo tocco divino le procura una profonda soddisfazione, colma di delizie la sua sostanza, appaga con soavità il desiderio di pervenire all’unione divina – chiama tale unione o tocchi venti innamorati. Difatti, come ho detto, in quest’unione le vengono comunicate, molto amorosamente e dolcemente, le perfezioni dell’Amato, e ciò provoca nell’intelletto il soffio della comprensione. E lo chiama sibilo, soffio, perché come il soffio causato dal vento penetra acutamente nell’interno dell’orecchio, così questa sottilissima e delicata conoscenza penetra nell’intimo della sostanza con un diletto e una soavità straordinari, superiori a ogni altro piacere. Il motivo sta nel fatto che viene comunicato all’anima una sostanza già tutta compresa e libera da ogni accidente e fantasma; viene comunicata all’intelletto che i filosofi chiamano passivo o possibile, perché la riceve passivamente, senza far nulla da parte sua. Ciò costituisce la più grande gioia per l’anima, perché avviene nell’intelletto, sede della fruizione, come dicono i teologi, che consiste nel vedere Dio. Poiché questo sibilo rappresenta detta conoscenza, ricevuta nella sostanza dell’anima, alcuni teologi pensano che il nostro padre Elia abbia visto Dio nel mormorio di vento leggero sentito all’imboccatura della grotta sul monte. La Scrittura lo chiama mormorio di vento leggero (1Re 19,12) perché dalla sottile e delicata comunicazione dello spirito il suo intelletto ricevette tale conoscenza. Qui l’anima lo chiama sibilo di venti innamorati, perché dall’amorosa comunicazione delle virtù del suo Amato si riversa nel suo intelletto; per questo, dunque, lo chiama sibilo di venti innamorati.

15. Questo soffio divino che entra attraverso l’udito dell’anima non solo è sostanza, come ho detto, tutta compresa, ma anche svelamento di verità sulla Divinità o rivelazione dei suoi segreti più reconditi. Infatti, ordinariamente, tutte le volte che nella sacra Scrittura si parla di qualche comunicazione di Dio, che passa attraverso l’udito, si tratta di manifestazione di queste verità nude all’intelletto o rivelazione di segreti di Dio; rivelazioni o visioni puramente spirituali, che vengono date esclusivamente all’anima senza il concorso e l’aiuto dei sensi. Ecco perché le conoscenze che Dio comunica all’anima attraverso l’udito interiore sono molto elevate e sicure. Per questo san Paolo, volendo farci comprendere la sublimità della sua rivelazione, non disse: Vidit arcana verba, e nemmeno: Gustavit arcana verba, ma: Audivit arcana verba, quae non licet homini loqui, cioè: Udì parole segrete che non è lecito all’uomo proferire (2Cor 12,4). Da questo si può arguire che anche lui, come il nostro padre Elia, abbia visto Dio nel soffio del vento. Perché come la fede, insegna ancora san Paolo (Rm 10,17), ci giunge attraverso l’udito fisico, così pure quanto ci dice la fede, cioè la sostanza stessa della verità, ci giunge attraverso l’udito spirituale. Ce lo fa comprendere molto bene Giobbe, quando, parlando con Dio dopo che gli si era rivelato, dice: Auditu auris audivi te, nunc autem oculus meus videt te: Io ti avevo udito con il mio orecchio, ma ora il mio occhio ti vede(Gb 42,5 Volg.). Queste parole mostrano chiaramente che udire Dio con l’udito dell’anima significa vederlo con l’occhio dell’intelletto passivo, di cui sopra. Per questo non dice: ti udii con le mie orecchie, ma: con il mio orecchio; e neppure: ti vedo con i miei occhi, ma: con il mio occhio, che è l’intelletto. Di conseguenza, questo udire dell’anima è la stessa cosa che vedere con l’intelletto.

16. Il fatto che l’anima riceva questa conoscenza sostanziale spoglia di ogni accidente, di cui si è parlato, non significa che essa possieda la fruizione di Dio perfetta e chiara come in cielo. Anche se spoglia di accidenti, non per questo è chiara, ma oscura, perché è una contemplazione, e la contemplazione, in questa vita, come dice san Dionigi, è raggio di tenebra. Possiamo, quindi, dire che essa è un raggio o un’immagine di fruizione, in quanto è nell’intelletto, ove ha luogo la fruizione. Questa sostanza ricevuta pienamente, e che l’anima qui chiama sibilo, corrisponde agli occhi desiderati: quando l’Amato glieli fece vedere, non riuscendo a sopportarli con i suoi sensi, esclamò: Distoglili, Amato!

17. Mi sembra calzi molto a proposito riportare qui un’affermazione di Giobbe, che conferma in gran parte ciò che ho detto su questo rapimento e fidanzamento. Voglio citarla, anche se dovrò dilungarmi un po’, spiegandone le parti che riguardano il nostro argomento. Riporterò dapprima tutto il testo in latino, poi in lingua volgare. Fatto questo, spiegherò brevemente quanto attiene al nostro argomento. Riprenderò poi la spiegazione dei versi dell’altra strofa. Elifaz il temanita, nel libro di Giobbe, prende la parole e dice: Porro ad me dictum est verbum absconditum et quasi suscepit auris mea venas susurri eius. In horrore visionis nocturnae, quando solet sopor occupare homines, pavor tenuit me et tremor, et omnia ossa mea perterrita sunt: et cum spiritus, me praesente, transiret, inhorruerunt pili carnis meae: stetit quidam, cuius non agnoscebam vultum, imago coram oculis meis, et vocem quasi aurae lenis audivi. Tradotto significa: A me fu recata, furtiva, una parola e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro. Nei fantasmi, tra visioni notturne, quando grava sugli uomini il sonno, terrore mi prese e spavento e tutte le ossa mi fece tremare; un vento mi passò sulla faccia e il pelo si rizzò sulla mia carne… Stava lì ritto uno di cui non riconobbi l’aspetto, un fantasma stava davanti ai miei occhi… un sussurro… e una voce mi si fece sentire…(Gb 4,12-16). In questo passo è contenuto quasi tutto ciò che ho detto finora sul rapimento, partendo dalla strofa 13 che dice: Distoglili, Amato! Qui, infatti, Elifaz il temanita dice che gli fu recata furtiva una parola; essa indica quella conoscenza nascosta, offerta all’anima. Non potendone, però, sopportare la grandezza, dice. Distoglili, Amato!

18. Affermare che l’orecchio ne percepì il lieve sussurro equivale a dire che l’intelletto riceve la conoscenza pura e sostanziale di cui si è parlato. Lieve qui indica la sostanza interiore, mentre sussurro la comunicazione e il tocco di attributi divini con cui viene offerta all’intelletto la suddetta conoscenza. Qui la chiama sussurro, perché la comunicazione è molto soave, come altrove l’anima la chiama venti innamorati, perché s’infonde con grande amore. Dice che fu una comunicazione furtiva, perché era un segreto del tutto estraneo all’uomo, dal punto di vista naturale, e quindi ricevette qualcosa che non era della sua natura. E così non gli era lecito ricevere tale segreto, come neppure a san Paolo (2Cor 12,4) era lecito rivelare il suo segreto. Per questo un altro profeta ripete due volte: Il mio segreto è per me (Is 24,16 Volg.). E quando dice: Nei fantasmi, tra visioni notturne, quando grava sugli uomini il sonno, lascia intendere il timore e il tremore che si producono naturalmente nell’anima quando riceve, nell’estasi, quella conoscenza, di cui sopra, visto che la sua natura non può sopportare la comunicazione dello spirito di Dio. Qui il profeta parla del momento in cui gli uomini si apprestano a dormire e vengono di solito assaliti e spaventati da visioni che chiamano incubi e che si presentano tra il sonno e la veglia, quando sta per arrivare il sonno. Allo stesso modo, al momento di questo passaggio spirituale dal sonno dell’ignoranza naturale alla veglia della conoscenza soprannaturale, cioè all’inizio del rapimento o dell’estasi, la visione spirituale che allora si presenta incute timore e spavento.

19. E aggiunge: Tutte le ossa mi fece tremare. Come se dicesse che si scossero e si staccarono dalle giunture, volendo significare il grande slogamento di ossa che si soffre in questi momenti, come ho accennato. Ne parla anche Daniele quando vide l’angelo: Domine, in visione tua dissolutae sunt compages meae: Signore mio, al vederti le mie giunture si sono slogate (Dn 10,16 Volg.). Subito dopo Elifaz continua dicendo: Un vento mi passò sulla faccia – cioè quand’esso trasportò il mio spirito fuori dei suoi limiti e vie naturali per collocarlo nel rapimento – il pelo si rizzò sulla mia carne. In questo trasporto il corpo rimane gelido e irrigidito, come se fosse morto.

20. E prosegue: Stava là ritto uno di cui non riconobbi l’aspetto, un fantasma stava davanti ai miei occhi. Quello di cui parla era Dio che si comunicava nel modo suddetto. E dice che non riconobbe il suo aspetto, per far capire che in quella comunicazione e visione, anche se altissima, non si conoscono né si vedono il volto e l’essenza di Dio. Dice però che quest’immagine o fantasma era davanti ai suoi occhi, perché, come ho detto, l’intelligenza di parole segrete era molto profonda, quale immagine e riflesso di Dio; ma questo non era vedere Dio nella sua essenza.

21. Infine conclude in questi termini: Un sussurro e una voce mi si fece sentire, in cui si riconosce il sibilo dei venti innamorati, che qui l’anima dice essere il suo Amato. Non dobbiamo pensare che queste visite generino sempre simili timori e sofferenze naturali. Come ho già detto, questo avviene solo per coloro che cominciano a entrare nello stato d’illuminazione e di perfezione e in questo genere di comunicazione, mentre negli altri avviene piuttosto con grande soavità. Continua la spiegazione: la quiete della notte.

22. In questo sonno spirituale che si gode sul petto dell’Amato, l’anima possiede e gusta tutta la tranquillità, il riposo e la quiete di una notte pacifica. Nello stesso tempo riceve una conoscenza estremamente profonda ma oscura di Dio. Per questo dice che il suo Amato è per lei la quiete della notte vicina allo spuntar dell’aurora.

23. Questa quieta notte, dice, non è come la notte fonda, ma come la notte ormai vicina allo spuntar dell’aurora, cioè al sorgere del mattino. Questa tranquillità e questa quiete in Dio non sono, per l’anima, completamente buie, come la notte fonda, ma riposo e quiete nella luce divina, in una nuova conoscenza di Dio, in cui lo spirito gode di una dolcissima quiete, perché elevato alla luce divina. Giustamente qui chiama questa luce divina lo spuntar dell’aurora, cioè del mattino. Come il sorgere del mattino fuga le oscurità della notte e annuncia la luce del giorno, così questo spirito che gode della calma e della quiete in Dio viene elevato dalle tenebre della conoscenza naturale alla luce mattutina della conoscenza soprannaturale di Dio, non del tutto chiara, ma, come è stato detto, oscura, simile allo spuntar dell’aurora. Difatti, come la notte vicina all’aurora non è del tutto notte né del tutto giorno, ma è, come si suol dire, tra due luci, così è per l’anima in questa solitudine e quiete che trova in Dio: non gode con tutta chiarezza della luce divina, ma ne partecipa in qualche modo.

24. In tale quiete l’intelletto si vede elevato, con sua grande sorpresa, al di sopra di ogni conoscenza naturale verso la luce divina. È simile a colui che, dopo un lungo sonno, apre gli occhi alla luce che non si aspettava. Di questa luce credo che intendesse parlare Davide quando diceva: Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto: Mi svegliai, e divenni come un passero solitario sul tetto(Sal 101,8 Volg.). In altri termini: aprii gli occhi del mio intelletto e mi trovai al di sopra di tutte le conoscenze naturali, solitario, senza di esse, su un tetto, cioè al di sopra di tutte le cose di quaggiù. Il testo dice che è divenuto simile a un passero solitario, perché, nella contemplazione di cui si parla qui, lo spirito ha le stesse caratteristiche di quel passero, che sono cinque. Anzitutto, il passero abitualmente cerca i luoghi più alti. Così fa lo spirito in questo stato: si eleva fino ai più alti vertici della contemplazione. In secondo luogo, tiene sempre rivolto il becco verso la direzione donde viene il vento. Così fa lo spirito: volge il becco dell’affetto là donde gli viene lo spirito d’amore, che è Dio. In terzo luogo, il passero abitualmente se ne sta solo e non permette ad altri uccelli di avvicinarsi; anzi, se qualcuno gli si posa accanto, se ne va. Anche lo spirito, in questa contemplazione, si trova nella solitudine di tutte le cose, completamente spoglio, né consente in sé altra cosa che la solitudine in Dio. La quarta caratteristica del passero è quella di cantare in maniera molto dolce. Così pure fa lo spirito rivolto a Dio in questo stato: le lodi che innalza a Dio sono pregne di soavissimo amore, gustosissime per il medesimo spirito e molto preziose per Dio. La quinta caratteristica del passero è quella di non avere un colore ben definito. Anche lo spirito perfetto, in questo stato di estasi, non solo non nutre alcun affetto sensuale e amor proprio, ma rimane estraneo a qualsiasi riflessione su cose spirituali o terrene, e non può parlare assolutamente di ciò che prova, perché, come ho detto, la conoscenza ch’egli possiede di Dio è tutta un abisso. Musica silenziosa.

25. Nella quiete e nel silenzio di questa notte, come anche nella conoscenza della luce divina, l’anima riesce alla fine a percepire le meravigliose convenienze e disposizioni della Sapienza, riflesse nella varietà di tutte le creature e di tutte le opere. Tutte e ciascuna, secondo la modalità propria, manifestano la loro dipendenza da Dio; ciascuna, a suo modo, canta ciò che Dio è in essa; così l’anima sembra udire l’armonia di una musica dolcissima, che trascende tutte le danze e le melodie del mondo. Dice che questa musica è silenziosa, perché è conoscenza serena e quieta, senza rumore di voci; in essa assapora la dolcezza della musica e la quiete del silenzio. E dice che il suo Amato è musica silenziosa, perché in lui conosce e gusta quest’armonia di musica spirituale. Non solo, ma la chiama anche solitudin sonora.

26. Questa è quasi come la musica silenziosa, perché quantunque quella musica sia silenziosa per i sensi e le facoltà naturali, è nondimeno solitudine sonora per le facoltà spirituali. Queste, infatti, essendo sole e vuote di tutte le forme e conoscenze naturali, possono ben ricevere il suo non spirituale che risuona in esse con tutta la sonorità per cantare quanto Dio è grande in sé e nelle sue creature, come aveva sentito san Giovanni nell’Apocalisse: La voce di suonatori d’arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe (Ap 14,2). Questo avveniva in spirito e non su arpe materiali. Si tratta di una conoscenza delle lodi che ciascun beato, secondo il suo grado di gloria, innalza incessantemente a Dio. Tutto questo è come una musica, perché, possedendo ciascuno doni diversi dagli altri, ognuno canta le proprie lodi in maniera diversa, ma formando tutti un’armonia d’amore, come avviene nei concerti.

27. Allo stesso modo, l’anima vede risplendere quella divina sapienza in tutte le creature, superiori e inferiori. Ognuna di esse, in base ai doni ricevuti da Dio, rende la sua testimonianza di ciò che Dio è, e ognuna a suo modo esalta Dio, secondo quanto la loro capacità permette di averlo in sé. E così tutte queste voci si fondono in un’unica voce che canta la grandezza di Dio, la sua sapienza e scienza straordinaria. Ciò è quanto volle dire lo Spirito Santo nel libro della Sapienza: Spiritus Domini replevit orbem terrarum, et hoc quod continet omnia, scientiam habet vocis: Lo spirito del Signore riempie l’universo e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce (Sap 1,7), cioè la solitudine sonora che, come dicevo, l’anima conosce in questo stato, e che è la testimonianza che tutte le creature danno a Dio. E poiché l’anima riceve questa musica sonora, nella solitudine e nel distacco da tutte le cose esteriori, la chiama musica silenziosa e solitudine sonora, dicendo che è il suo Amato. Egli è inoltre cena che ristora e innamora.

28. La cena per gli amanti è ricreazione, sazietà e amore. Poiché l’Amato produce questi tre effetti in questa comunicazione piena di soavità, l’anima la chiama qui cena che ristora e innamora. Occorre ricordare che nella sacra Scrittura il termine cena indica la visione divina. Difatti, come la cena è la conclusione del lavoro del giorno e inizio del riposo della notte, così questa conoscenza riposante, di cui ho parlato, fa sperimentare all’anima la fine certa dei suoi mali e il sicuro possesso dei beni; ragion per cui l’anima s’innamora di Dio ancora più di prima. Per questo l’Amato è per lei cena che ristora, mettendo fine ai suoi mali, e la fa innamorare, mettendola in possesso di tutti i beni.

fonte: http://digilander.libero.it/carmelitanitorresi/